I fantocci

di / 16 marzo 2017

Un giorno, mio marito tornò a casa con una copia di me. Un omino partorito da una stampante 3D. Vicino al suo ufficio c’era un negozio, due vetrine quasi nascoste in una strada secondaria, su cui una vetrofania annunciava: Ferma i tuoi ricordi in tridimensione! Mio marito mi disse di aver visto, lì esposto, un omino quasi identico a lui.
L’omino guardava fuori dal vetro e mio marito ricambiava il suo sguardo.
Com’è possibile? mi chiesi col tempo. Sarà stata un’illusione.
Decise di entrare. Un campanellino appeso sopra la porta avvisava il negoziante dell’entrata dei clienti, come nelle vecchie botteghe. Lo so perché un giorno, molto tempo dopo aver ricevuto quel regalo, ci sono entrata anche io. Volevo vedere da dove veniva la copia di me.

Mi consegnò la copia di me soltanto a Natale. Un regalo che aprii davanti a tutte e due le nostre famiglie. Ricordo che dopo aver scartato il pacchetto alzai lo sguardo, ma non feci in tempo a chiedere di cosa si trattasse perché la voce mi si bloccò in gola: mio marito teneva in trionfo fra le braccia una copia di sé.
I parenti ridevano, e commentavano a bassa voce. Di sicuro pensavano che quei due pupazzi fossero regali di cattivo gusto. «È uno scherzo», dissi per difendere mio marito.
A fine giornata i nostri doppi giacevano sull’ovatta color crema, che ricopriva il fondo di una scatola. «Sono come in una bara», borbottò qualcuno, uscendo.

Il giorno dopo mettemmo i fantocci seduti su due sedie. Li guardavamo.
«Per realizzarli partono da una fotografia, la passano in uno scanner speciale e, alla fine, creano degli omini».
Per un po’ non parlammo.
«I capelli non vengono stampati, sono impiantati per ultimi, a uno a uno», precisò mio marito a un certo punto.
Mi toccai la testa, tirai forte una ciocca.
«È nylon, quello che vedi. Come per le parrucche».
«Meno male».
Da quel momento in casa eravamo due adulti e due figure che ci riproducevano.
Mio marito ha sempre voluto che li chiamassimo fantocci.

La sua copia aveva la pelle chiara e una camicia che non ricordavo di avergli mai visto addosso. Portava la fede e questo mi fece sorridere. Persino le scarpe erano la riproduzione fedele di quelle che possedeva lui.
La fotografia che mio marito aveva scelto per me invece, mi ritraeva quasi ragazza, in un vestito che non indossavo più. Era nei vani più irraggiungibili dell’armadio, dove nascondevamo i cimeli di famiglia, le diapositive e i ninnoli: un mio cappotto cucito a mano di quando avevo quattro anni, un vestito da sposa, dei guanti da sci ormai logori. Quel fantoccio rappresentava la donna che ero stata diversi anni prima.

In fondo, trovavo divertente la loro presenza. Mi capitava di pensarci anche durante la giornata, quando ero lontana da casa, al lavoro o altrove.
«Un giorno li guarderemo è ci faranno impressione».
«Perché?», chiese mio marito.
«Perché saremo invecchiati troppo e non ci riconosceremo più. Allora li odieremo».
«Invece, succederà il contrario. Vorremo loro bene come i nostri ricordi più cari».
«Dipende da come li avremo trattati».
«Li tratteremo come tratteremmo dei cani».
«O dei figli».
«O dei figli».
«Non sarebbe più semplice pensare che sono solo fotografie tridimensionali?»
«Ma non lo sono. Loro vivono qui, da quando li ho portati a casa, da quando hai aperto la scatola».
«A Natale».
«A Natale».
«Adesso questa è casa loro».

Una sera, tornata dal lavoro, trovai i fantocci sui comodini della stanza da letto. Uno per parte. Ce li aveva messi mio marito? Poteva essere rientrato a casa durante la pausa pranzo?
Scoprii in seguito che la signora che veniva una volta a settimana a mettere a posto la nostra casa si era presa questa libertà. Ma non provai rabbia nei suoi confronti, piuttosto mi sembrò che da quel momento lei sapesse qualche cosa in più, su di noi.
I fantocci, alla destra e alla sinistra del letto (il mio lato, il lato di mio marito), apparivano leggermente più ingombranti rispetto alla nostra misura effettiva. Guardai lei, una bambola con le mie sembianze, un vestito che doveva essere stato realizzato da mani abili. Allungai un dito per toccarla, ma poi lasciai perdere.
Decisi anche di aspettare. Non avrei spostato i due fantocci da un’altra parte, non li avrei riposti nelle scatole. Volevo far vedere a mio marito questa buffa novità.
«Un’altra me!», pensai. E mi abbandonai sul letto, senza pensieri, in attesa.

«Perché li chiami fantocci?», gli chiesi.
«Perché è quello che sono».
«Ha una nota sprezzante».
«Significa solo che non hanno una volontà. Che possiamo spostarli noi dove vogliamo. Da soli non potrebbero farlo, né desiderarlo».
«Allora, sono come gli altri oggetti, per te».
Parlavamo sdraiati sul letto. Il soffitto della nostra stanza era talmente alto che mi aspettavo l’eco delle nostre parole.
«Con la differenza che gli oggetti normali non hanno una figura umana», disse mio marito infilandomi una mano sotto il pigiama.
A un certo punto pensai che quei nostri fantocci forse non avrebbero mai avuto degli altri vestiti. Che sarebbero stati cristallizzati per sempre in una forma sola.

Un pomeriggio, sul letto, li mettemmo vicini. Avvicinai la bocca di lei alla guancia di lui. Spostai la mano di lei e la portai vicino alla pancia di lui. Ora che stavano come abbracciati, davano l’idea del riposo. In quella finzione, si intravedeva la resa, la pace. Mio marito mi prese la mano.
Sentii che dovevamo tenerli in qualche modo composti, che avremmo dovuto rispettare la loro dignità, data dal fatto di essere una forma. Una forma che si avvicinava prepotentemente alla nostra.

Quando spegnevamo la luce, l’ultima cosa che vedevo era il mio fantoccio sul comodino.
Una notte mi parve di scorgere dei puntini luminosi nel buio. Uno sguardo?
Chiusi gli occhi, rannicchiandomi sotto le lenzuola. Poi, li riaprii. D’istinto mi voltai dalla parte di mio marito, per vedere se anche lì ci fosse qualcosa.
A poco a poco, nella penombra, prese forma il contorno dei mobili della camera da letto, nel confine tra il sonno e la veglia. Sotto le coperte la sagoma di mio marito si intravedeva appena.
I due punti di luce, che pensavo di aver scorto, sparirono nello sfondo indistinto della notte.
Ci sarebbero sopravvissuti, ne ebbi la consapevolezza. Qualcuno, molto più avanti, li avrebbe maneggiati e avrebbe dovuto decidere che cosa fare di loro.

Una coppia di amici, a cena, ci chiese di vederli. Li appoggiai sulla tovaglia, vicino alle bottiglie. Li trovarono più che bizzarri.
«Forse è la misura che spaventa. Se fossero appena un poco più piccoli sarebbero accettabili… ma così, sono peggio di quelle bambole da collezione!», disse lui.
«Dei mostri», aggiunse lei soffiando fuori il fumo di sigaretta. «Ma come vi è venuto in mente? E come fate a dormire, con questi esseri vicino al vostro cuscino?»
Lui le toccò una spalla e ci guardò. Anzi, ci guardavano tutti e due: «È il fascino dell’automa, cara. Sono passati secoli dagli stordimenti iniziali e, come vedi, non tramonta».
Da tempo cercavano di avere un bambino, ma non stava andando bene. Lei diceva: «Fumo come una turca, così poi avrò un buon motivo per smettere». Lunghe boccate, godute. Erano amici, e conoscevamo bene i loro movimenti, gli atteggiamenti, i gesti.

Ogni tanto, di notte, anche noi avevamo parlato di bambini, di provare. Ma cambiavamo subito discorso.
Quella sera andai a letto furibonda. Nell’intimo, pensavo che avrei voluto sabotare e ferire i nostri amici. Che diritto avevano di parlare così dei nostri fantocci?
Sperai in cuor mio che lei continuasse a tirare quelle sue lunghe boccate, a vuoto. Che i loro progetti non andassero in porto e che le loro voci si spegnessero come una fiamma che scompare.
Dissi tutto questo a mio marito e lui mi guardò comprensivo, aggiungendo: «Hanno esagerato. Peggio per loro».

Mi scoprii a osservare me stessa con un’attenzione più analitica. Il dorso delle mani, la punta del naso, una leggera gobba poco più in su. Ci dimentichiamo delle parti del nostro corpo, con gli anni. È normale dimenticarsi che le braccia si allungano nei polsi e i polsi nei palmi. Lungo i polsi si vedono i vasi sanguigni, la pelle è così sottile, irriproducibile.

Tutto ciò che è familiare a poco a poco diventa lontano.

Un ricordo.

«C’è una ferita», mio marito arriva dall’altra stanza.
Io passo da un canale all’altro. Guardo una chat sul telefonino.
«C’è una ferita».
«Che ferita?»
«Sul fantoccio. Guarda».
Mi rannicchio e tengo gli occhi fissi sullo schermo. «Sì, scusa. Mi è caduto, ieri. Due volte», dico.
La nostra casa è così calda durante l’inverno, addormenta, culla, stordisce. Gli amici lo dicono sempre: «Da voi va tutto più lento». E ridono. Fumano.
«Solo due volte? Non ti sembra troppo rovinato? Come ha fatto a caderti?»
Mio marito sorride indeciso. Sembra un fanciullo che non sa bene che mosse fare.
Mi toglie il telecomando dalle mani e si rannicchia accanto a me.
Sul fantoccio, appoggiato al cuscino, vedo che è comparsa una fenditura sotto il costato. Sembra reale, abnorme. Mi fa pensare a del sangue che viene prosciugato.

Eravamo ancora giovani. Quella fra di noi era sempre stata una passione minore, leggera, mai esplosiva.
Eppure, non potei fare a meno di accorgermi che, da quando i fantocci erano entrati in casa e nella nostra stanza, qualche cosa a poco a poco era cambiato.
Discutevamo con foga, di notte. Ci rinfacciavamo le mancanze della vita a due. Io venivo presa da una violenza che di giorno non avrei potuto sopportare, mostrare.
Le nostre voci rimbalzavano su soffitto della camera da letto, certe volte tornavano indietro, come palline, colpi che ci lanciavamo l’un l’altro. Allo stesso modo, ero capace di un’eccitazione che nelle altre ore non conoscevo. Potevo pronunciare parole che alla luce del giorno non riuscivo nemmeno a pensare. Potevo mordere le lenzuola, scalciare. Muovermi come alla luce non avrei potuto immaginare. Nessuno mi vede e, nel buio, il buio mi vede.
Forse anche i fantocci mi vedevano.
Dopo queste lotte amorose, fatte di verbigerazioni, di tirate di capelli e di morsi, riuscivamo sempre ad addormentarci con l’impronta che le nostre voci avevano lasciato sulle pareti, sull’intonaco bianco che rinfreschiamo ogni tre anni. Sempre uguale, bianco. Dormivamo sotto quella superficie scheggiata dalle nostre voci. Gli influssi si stratificavano, segno dopo segno, sulle superfici. Le lenzuola impregnate, sotto.
E queste due copie di noi che stavano lì, nella stanza, sopra i nostri comodini, anche loro, come il soffitto, come le lenzuola, l’intonaco, subivano i nostri influssi che si stratificavano.

Una sera a cena, mio marito disse: «Il corpo è un mistero. Il naso e le orecchie sono le sole parti del corpo che continuano a crescere durante la vita».
Pensai ai vecchi, ai loro lobi che cadono verso il basso e ai padiglioni auricolari così sporgenti da ricordare creature nate deformi.

Cominciammo a fare un gioco che ci dava i brividi. Iniziò lui.
Un giorno, entrai in bagno, mi guardai allo specchio e accanto al mio riflesso, vidi il fantoccio di mio marito. Soffocai un urlo. Mi abbassai, come mi avessero colpito alla nuca. E quando poi guardai in alto, quello che vidi, alle mie spalle, fu una composizione grottesca. Il fantoccio di mio marito era appoggiato a un vaso pensile, seduto tra le foglie di una pianta da interno.
Così ogni tanto, senza dirlo all’altro, ognuno di noi due spostava i nostri fantocci in diversi punti della casa. Silenziosamente, percorrevamo le camere, consideravamo le superfici, i vani, ogni possibile nascondiglio. Ogni possibile punto d’appoggio.
I fantocci divennero delle apparizioni, abitavano le stanze insieme a noi, formavano un nuovo paesaggio a ogni nuovo spostamento. Capitava che li trovassi dentro al nostro letto, su una sedia. Oppure nascosti nella scarpiera, dietro una tenda. Davanti alla finestra.

Quando ero sola con lei, la guardavo rapita dalla tenerezza. Avevo voglia di prendermene cura, come da piccola avevo fatto con le bambole.

«È solo uno scherzo», così avevo detto quel Natale. E lo era, credo.
Ma, col tempo, questi due simulacri di noi avevano iniziato ad avere una presenza. Una presenza, reale.
E, se prima li maneggiavamo con cura, col tempo, continuavano a caderci di mano.
Durante una lite, mio marito afferrò il mio fantoccio e lo strinse. Poi gli strappò il vestito, e lo gettò sul letto. Quello strano oggetto nudo, diafano, anatomicamente riconoscibile, eppure quasi senza forme, stava in mezzo a me e a mio marito.
Mi misi le mani davanti agli occhi. Un’immagine intollerabile. Poi, rapidamente, senza pensare, riposi tutto in un sacco di stoffa, lo buttai nell’armadio e andai a dormire sul divano.

Giorni dopo, decisi di trovare due vestiti nuovi per i fantocci. Così uscii di casa e camminai per un po’, in cerca di un’idea. Negozi per bambini. Una sarta. Pensai a me stessa mentre chiedevo a qualcuno di confezionare degli abiti su misura per loro. Mi avrebbe presa per pazza?
Essere fuori di casa, con i miei fantocci sotto braccio, chiusi lì in un sacco, mi mise a disagio. Pensai che in qualche modo stavano soffocando e che era come se li stessi portando al macero. Ecco che cosa farà chi si occuperà di loro: li distruggerà, o li dimenticherà da qualche parte. Faranno la fine dei manichini, o delle marionette stipate nei magazzini. Le cose che scompaiono.
Scostai un lembo del sacco che li conteneva, di modo da far passare un po’ d’aria.
Decisi di andare nel posto da dove erano venuti.
Fu così che mi decisi a trovare il negozio.
Uno spazio aurorale, con angoli talmente chiari da far pensare all’infinito. Varcata la porta, quello che si presentava davanti a me erano lunghe mensole a tagliare le pareti evanescenti. Mensole illuminate, su cui erano disposti a distanza regolare centinaia di uomini e donne in miniatura. Copie di copie di qualcuno.
«È il nostro catalogo», mi disse una voce.
Poi chiesi: «Avete qualcuno che si occupa dei loro vestiti?»
C’erano due persone, di fronte a me. Un ragazzo e una ragazza. Annuirono.
«Venga, le facciamo vedere», e mi portarono in un altro ambiente, dove parlammo a lungo degli abiti nuovi per i nostri fantocci.

Tornai a casa e per giorni mi occupai dei loro vestiti nuovi. Li cambiavo di continuo e riponevo tutto per bene in un cassetto che avevo svuotato apposta.
Mentre facevo tutto questo, mio marito si aggirava per la casa irrequieto. Forse non sopportava che adesso avessi io il potere sui nostri fantocci.

Tempo dopo, quei vecchi amici ci domandarono nuovamente di loro. Glieli mostrammo. Ci dissero che adesso eravamo proprio diversi da quei fantocci. E non perché fossimo invecchiati, piuttosto era come se ci fossimo avvicinati a un’altra forma, una forma unica per tutti e due.
«Non mi sembra proprio», disse mio marito.

Mi capitava di avere una fantasia. Era molto simile a quello che sarebbe potuto succedere. Vedo i nostri fantocci volare dalla finestra. La traiettoria è una parabola. Sono lenti mentre salgono. Il loro contorno diventa più preciso in contrasto con una nuvola. Quando precipitano invece sono rapidi. In un attimo spariscono.
Ci affacciamo. Un signore col cane al guinzaglio ci fissa severo dal marciapiede.
«È stato il bambino, ci scusi», dico d’istinto.
«Quale bambino?», chiede mio marito.
Nel tempo diluito della mia immaginazione, lo aggancio con lo sguardo, prendo la rincorsa e mi lancio verso di lui.

 

 
Elena Cattaneo (1978) vive a Milano, dove lavora come content editor per una società che si occupa di applicazioni web legate al video. È diplomata in Drammaturgia teatrale e ha scritto per alcune riviste online di narrativa e spettacolo. Per diversi anni è stata libraia, e successivamente assistente in uno studio di psicologia. È appassionata di letteratura per l’infanzia e per la preadolescenza; collabora con laboratori di scrittura creativa e lettura, per bambini e ragazzi.

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio