[TFF30] Sintesi delle prime due giornate del Torino Film Festival

di / 25 novembre 2012

Si arriva a Torino, con ritardo, e si è accolti da un clima tutt’altro che gelido, le buone notizie però si esauriscono tutte qui. Il Torino Film Festival per il suo trentesimo compleanno sembra aver acquisito la ben poco simpatica attitudine alle code chilometriche. File per qualsiasi cosa nascono in un battito di ciglia e non puoi che arrenderti. Si inizia da subito con un ritiro accrediti estenuante che sostanzialmente manda all’aria i programmi per il primo giorno. Restano da vedere solo Holy Motors di Leos Carax e NO di Pablo Larraín, pesi massimi dunque, se non fosse che anche Holy Motors ci sfugge a causa di una coda da annali. Sperando che sia tutta colpa del “fine settimana” non ci resta che consolarci con il cileno.

La liberazione e nascita di un paese attraverso pubblicità e televisione, si potrebbe sintetizzare così NO, già in concorso a Cannes e presente a Locarno, ma sarebbe far torto a un’ opera densa di spunti di interesse: 1988, il Cile va al referundum per dire SI o NO alla continuazione della dittatura di Pinochet, sembra una farsa ma non lo sarà. I dissidenti per la prima volta hanno possibilità di far sentire la propria voce attraverso spazi televisivi di quindici minuti al giorno e per farlo si affidano a un pubblicitario di successo dalle idee innovative e pragmatiche ma non privo di idealismo. Larraín sceglie di girare in digitale ma traslandolo a tal punto da farlo sembrare una VHS rovinata, si assiste così a un gioco d’incastri tra immagini di repertorio e fiction con il cinema che gioca a esser televisione e la televisione che entra nel cinema. Una ricerca sull’estetica vintage attenta ma priva di sterile fascinazione retrò, una scelta visiva forte e contestualizzata di grande efficacia, capace di raccontare la liberazione e nascita di un paese sull’onda di una esplosione di modernità.


La mattina del secondo giorno è dedicata ai recuperi del giorno prima, a cominciare dal chiacchieratissimo Holy Motors di quel Leos Carax dato oramai per disperso. Acclamatissimo a Cannes, Holy Motors è opera visionaria difficilmente raccontabile perché quel che fa è raccontare alcuni dei tanti racconti possibili, un film su ogni film possibile, il vivere e lasciar vivere tutte le vite possibili – o sarebbe meglio dire “rivivere” –, come sottolineato nella magistrale sequenza in cui parte quella “Revivre” di Gerard Manset che quasi spiega e fonde l’intera opera. L’immagine pura nella sua estrema semplicità e grandezza e le passioni umane che si susseguono senza sosta in un ciclo di vissuto denso e surreale.

Jennifer Lynch, figlia di cotanto padre, dopo il delirante e pessimo Boxing Helena aveva riguadagnato un minimo di stima con il discreto Surveillance. È quindi con un certo interesse che ci si appresta alla visione di Chained, un thriller dai toni morbosi, ben confezionato ma privo di identità e fascino che si lascià ricordare solo per la splendida prova attoriale di un Vincent D’Onofrio incomprensibilmente più presente in tv che al cinema.

La situazione migliora decisamente con il frizzante Imogene della coppia Pulcini-Berman, già apprezzati autori di American Splendor. Commedia divertente e divertita, interamente appoggiata sulla verve e le faccie di una sempre brava Kristen Wiig. Puntigliosa e talentuosa autrice teatrale, Imogene d’un tratto si ritrova dalla sua dorata vita new yorkese a ripiombare nella natia e provincialissima New Jersey, causa sequela di sfortune ed errori di vita. Nulla di nuovo sotto il sole, una slap-stick comedy classica e un po’ banale sul ritorno all’ovile e la scoperta dei veri valori, regala però momenti di sano divertimento e conferma quanto, a discapito della scarsità di produzione di genere, gli Usa siano ancora assai ricchi di talenti comici, in piena tradizione Saturday Nigh Live.

Assai deludente 11.25 The Day He Chose His Own Fate, il lavoro di Wakamatsu Koji su Yukio Mishima: tempi e modi da sceneggiato televisivo non restituiscono nulla né della visionarietà di Wakamatsu, qui irriconoscibile e impalpabile, né della complessità del pensiero di Mishima.

Serata dedicata a un fare cinema di puro intrattenimento con quello che potrebbe essere, e non sarebbe un male, un nuovo genere: il Block-Movie. Tower Block della coppia inglese James Nunn e Ronnie Thompson, prosegue sulla scia di film come Sket e Attack the Block. Racconti di vita dura e violenta di periferia ma con in testa pochi sottotesti sociali e politici, cinema di pancia dall’estetica forte e la scrittura spesso flebile, senza però che la cosa pesi più di tanto. Un palazzone in dismissione, pochi abitanti dell’ultimo piano si ostinano a non abbandonarlo, un ragazo viene ucciso e nessuno ha visto e sentito nulla e d’improvviso una mattina accade l’imponderabile. Alcuni momenti morti e una già citata scrittura non eccelsa lo rendono meno compiuto del favoloso Attack the Block ma il divertimento è garantito e non mancano sequenze di grande impatto.

Ci sarebbe spazio per un’altra visione ma in tutta onestà non si muore certo dalla voglia di avere conferma dell’inutilità dell’ultimo cinema di Rob Zombie, lo si recupererà, forse, nei prossimi giorni.

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