Jacopo Ortis è uscito dal gruppo

Nelle rituali competizioni a eliminatoria diretta imposte dalla vulgata scolastica (Inferno vs Paradiso, Ariosto vs Tasso, Romanticismo vs Illuminismo, ecc.),  Le ultime lettere di Jacopo Ortis, fino a un paio di decenni fa, vincevano con facilità il confronto con Promessi sposi o Malavoglia. Ma da allora una tendenza ribassista ha visto scendere implacabilmente le quotazioni del romanzo foscoliano nell’apprezzamento dei lettori liceali e delle nuove generazioni. Esito di cui, forse, sarebbero contenti Gadda, che mal sopportava gli atteggiamenti predannunziani del “vispo Nicoletto”,  e Contini, che in un’intervista del 1989 dichiarò a proposito dell’Ortis: “è uno dei libri che detesto di più al mondo”. Eppure quell’esperimento narrativo così ibrido e eccessivo, tanto lontano dagli equilibri a tutto tondo delle strutture romanzesche dell’ottocento, è un lavoro che possiede tutti i numeri per agganciare ancora oggi l’attenzione del pubblico giovanile.

Infatti una volta superata la difficoltà imposta dalla patina arcaica della retorica tragico-lirica, con cui Foscolo cerca di far fronte all’assenza di un linguaggio narrativo italiano, l’Ortis si rivela un romanzo di formazione adolescenziale a tutti gli effetti. D’altronde Foscolo lo compose nel 1798, quando aveva venti anni appena compiuti. Ma il suo nucleo ideativo va retrodatato di altri due anni, al 1796, quando lo scrittore progetta il suo primo e incompiuto romanzo epistolare (Laura, lettere) e resta turbato dalla notizia del suicidio di Girolamo Ortis, suo collega di studi nell’università patavina. Un evento capace di catalizzare tutte le energie irrisolte di un Foscolo diciottenne nella sua prima prova di peso, in cui prendono forma fantasmi, passioni, incertezze, aspirazioni e delusioni di chi si affaccia alla vita adulta con ancora addosso la suggestione di un sogno che sta per dissolversi nei contorni certi del mondo adulto. Insomma l’Ortis come “ritratto dell’artista da giovane”, opera dunque di un Foscolo poco più che adolescente, alle prese con le sue prime e totalizzanti esperienze di apprendistato ideologico, nei circoli democratici veneziani, e di iniziazione erotico-culturale, grazie alle cure di una generosa e affascinante Isabella Teotochi, non ancora risposata Albrizzi, aristocratica trentenne che “si studia di piacere non per altro che per conquistare […]”, come appare nel ritratto che l’autore le dedica nelle vesti della moglie del patrizio M***.

Ma al di là del semplice accidente biografico è la strategia complessiva del testo a farne un romanzo giovanile o, meglio, di formazione adolescenziale. Adolescente è il protagonista. Ma anche il lettore ideale cui Foscolo si rivolge ha il profilo di un adolescente: infervorato dal mito della Rivoluzione francese e dai primi bagliori risorgimentali, deluso dalla deriva autoritaria dell’astro napoleonico, alle prese con le prime incandescenti esperienze amorose, eccitato dalla scoperta di autori e opere che gli rivelano orizzonti inaspettati della propria interiorità e lo proiettano verso un desiderio di assoluto che sta per assumere il nome di Romanticismo. Quello che hanno rappresentato Sulla strada e Il giovane Holden per i ventenni degli anni ’50 e ’60, quando i fermenti che avrebbero poi condotto alla rivoluzione sociale della contestazione erano ancora segnali di una confusa ricerca di identità, trova un’analoga fusione di ribellismo e insofferenza per il buon senso borghese e per l’età adulta nell’inquietudine che il giovane Ortis comunica alle generazioni (pre)risorgimentali. Basta pensare alla rabbiosa reazione con cui il personaggio foscoliano si scaglia contro la morale benpensante dei due sposini nei confronti del suicidio – un’anticipazione di quello del protagonista – del comune amico Olivo P*** (“voi dunque perché siete favoriti dalla fortuna vorreste essere onesti voi soli […] e illudere in questo modo la vostra coscienza? […]”, lettera del 17 Aprile). Una intransigenza morale, un istintivo rifiuto dei compromessi che nell’Italia dei primi anni dell’800 provocò effetti di immedesimazione emotiva ed eccitazione psicologica così forti da essere alla radice di un’ondata di suicidi giovanili simile a quella che, nel 1994, ha accompagnato per diverse settimane la fine di Kurt Cobain. Tanto che il professor Cesarotti, allora docente di fama dell’università patavina e intellettuale di grido tra le nuove generazioni per la sua traduzione dell’Ossian,in una lettera del 1802 avvertiva il suo dotato ex allievo Foscolo: “Del tuo Ortis non ho voglia di parlarne. Esso mi desta compassione, ammirazione e ribrezzo […] è un’opera scritta da un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica”.

In ogni caso il tema del suicidio costituisce uno dei motivi ricorrenti nelle storie di ambientazione giovanile (tra i tanti esempi: la morte volontaria di Neil Perry nell’Attimo fuggente o quella di Martino, l’amico-Mr. Hyde di Alex, protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo) ed è un elemento chiave per capire il profilo adolescenziale del protagonista foscoliano. Al di là delle motivazioni biografiche da cui nasce l’interesse foscoliano per il suicidio – quello del fratello Giovanni e quello dello studente Girolamo Ortis –, la scelta di farne fin dalle prime battute (“mi caccerei un coltello nel cuore […], lettera del 13 Ottobre) il basso continuo del romanzo è frutto di una strategia narrativa che punta a suscitare una incondizionata proiezione identificativa nel suo lettore ideale, così come postulato in apertura dall’amico-editore Alderani (“darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto”).

 Un altro aspetto che concorre a fare dell’Ortis un romanzo adolescenziale è il pastiche sentimental-politico, con una prevalenza del primo elemento sul secondo. Infatti nell’edizione Marsigli del 1798 il tema patriottico resta sullo sfondo come una massa minacciosa e imprecisa, che serve a dare rilievo all’incandescente emotività del protagonista. Ma anche nell’edizione del 1802 e in quella zurighese del 1816, in cui il testo subisce una più decisa sterzata nazional-patriottica, il romanzo resta indefinito in programmi, circostanze, nomi e riferimenti alla tumultuosa esperienza del triennio giacobino italiano che pure costituisce il fondale della narrazione. Un po’ quello che succede con gli eventi del ’77 bolognese nelle pagine del Boccalone di Palandri o con le riflessioni sull’attentato al giudice Falcone presenti nel Jack Frusciante di Brizzi, che valgono più come spie di una inquietudine di fondo che come indizi di un progetto sociale ben definito. Con Boccalone e Jack Frusciante, l’Ortis condivide anche altri aspetti del Bildungsroman giovanile italiano. A partire dalla casuale, ma significativa, relazione che tutti e tre i testi intrattengono con Bologna, fino al bisogno condiviso di ricostruire il sound di un’epoca e i gusti di una generazione attraverso dei puntuali riferimenti a autori, libri o musiche che ne hanno accompagnato lo sviluppo. La funzione che nel Boccalone è svolta dalle citazioni dei Beatles, di Battisti, del Giovane Holden, nel romanzo di Brizzi è rappresentato dalla fittissima serie di agganci alla musica punk rock (Pogues, Sex Pistols, ecc.), a Blade Runner, ma anche ai romanzi di De Carlo e Tondelli o ai fumetti di Pazienza. Non bisogna però scordarsi che quando Ortis celebra Omero, Dante e Shakespeare (“hanno investito la mia immaginazione ed infiammato il mio cuore […], lettera del 13 Maggio) o allude in maniera più o meno esplicita a Ossian e a Wieland, non sta citando quelli che da noi sono percepiti nella luce solenne ma museale dei classici. Per la nuova generazione che si affaccia alla soglia del primo ottocento quelli sono testi e autori antiaccademici, anticonvenzionali, che incarnano un desiderio di novità e di protesta, sono compagni di strada nella evoluzione di un percorso di ricerca dell’identità di una generazione che, nel giro di poco tempo, prenderà il nome di romantica.

Infine, anche l’enfasi gesticolante del libro foscoliano, la sua irruenza scomposta ma autentica, tornano nelle pagine dei suoi nipotini di fine novecento. Se non fosse per qualche spia ortografica o lessicale, chi saprebbe riconoscere al primo colpo la paternità di frasi come queste?

  1. “Nella sofferenza pressoché ininterrotta che mi ha tenuto prigioniero da ottobre a febbraio si aprono dei buchi, dolci deliri in cui desidero la morte, la liberazione dal male”;
  2. “Mi assumo mille argomenti; mi s’affacciano mille idee: scelgo, rigetto, poi torno a scegliere; scrivo finalmente, straccio, cancello e perdo spesso mattina e sera: la mente si stanca, le dita abbandonano la penna, e mi avvengo d’avere gittato il tempo e la fatica”;
  3. “pensieri ribollenti mi si agitano in testa mentre sono qui tutto solo in camera mia. L’interrogativo che mi ha abbastanza attanagliato nelle ultime due settimane – passo ulteriore, o forse semplice presupposto della mia teoria sulla Commedia Totale: che senso ha essere sinceri, nella vita?”

A questo punto perché non pensare che il titolo Jack Frusciante è uscito dal gruppo sia un omaggio cifrato all’Ortis foscoliano? Brizzi – si sa – decise di cambiare il nome del chitarrista dei Red Chili Hot Peppers, John Frusciante, simbolo di quell’“uscire dal gruppo” che è la nota dominante del romanzo, per non incorrere in problemi legati al diritto d’autore. Ma perché ha scelto di ribattezzare il suo idolo musicale proprio Jack? Forse perché Jack è anche il diminutivo di Jacopo, Jacopo Ortis, il riflesso postmoderno e in chiave rock di quel lontano antenato letterario che per primo ha seguito l’istinto di “uscire fuori dal gruppo”?

 

Soluzione: a) Boccalone; b) Le ultime lettere di Jacopo Ortis; c) Jack Frusciante è uscito dal gruppo.


Carlo D’Alessio è nato a Roma (1965), dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica. Attualmente vive e lavora in Spagna, come Lettore di italiano dell’Università di Saragozza. Ha pubblicato numerosi interventi di filologia e critica letteraria, tra cui i volumi: Lune di giada. Poesie cinesi tradotte da Arturo Onofri (Roma, Salerno Editrice, 1994); Il poema necessario. Poesia e orfismo in Dino Campana e Arturo Onofri (Roma, Bulzoni, 1999); Carteggi Cecchi – Onofri – Papini  (1912 – 1917) (Milano, Bompiani, 2000). È anche autore di racconti, usciti a più riprese su «Galleria» e «Nuova prosa», e di poesie pubblicate in «Fermenti». Nel 2009 ha dato alle stampe il romanzo Solo la penombra (Milano, Lampi di stampa).

Ciao Edoardo

 

Ieri mi sarei voluto svegliare a Genova, scendere giù al mare e guardare l'immenso porto ad occupare l'orizzonte. Le spalle ai carruggi, per una volta, solo per una volta, senza pensare a Fabrizio De Andrè e ai nani e alle puttane e ai marinai e a tutti quei personaggi che hanno caratterizzato la mia immagine della città della lanterna. Il pensiero sarebbe finito sull'ultimo grandissimo poeta che se n'è andato. “Addio a Sanguineti”, la notizia circola nella rete con la solita velocità, si vocifera persino un omicidio, ma è solo una voce, sembra, “Morto uno dei protagonisti della stagione delle Avanguardie” leggo stamani sul giornale. Non mi viene in mente nessuna poesia ma il giorno che l'incontrai, ormai più di due anni fa, al Salone del Libro di Torino dopo una lectio magistralis sulla traduzione, Sanguineti mi era apparso come un vecchio professore in pensione, con gli occhi malinconici di chi sa che molti dei sogni avuti in giovinezza non si sono realizzati e non si realizzeranno. Mentre partecipavo al triste rito dell'autografo – su un Mikrokosmos comprato al volo allo stand della Feltrinelli – ero incuriosito dall'esile, esiguo, corpo, dalle pieghe e dalle forme del volto, dal naso aquilino e dalle palpebre infossate e pensavo che avevo di fronte a me un pezzo di storia, l'incarnazione o l'umanizzazione di quei nomi che trovavo impressi nelle, spesso ignobili, antologie scolastiche. Pensavo a questo e pensavo al poeta universale e di parte, alla provocatoria candidatura a sindaco, al critico militante, al traduttore e a tutto quello che sapevo e non sapevo di lui. Morto Sanguineti, lutto nella cultura. Non è stato fatto tutto il possibile. No, non voglio pensare alla malasanità. Non mi interessa, non è il momento. Devo pensare alle sue poesie, ne ricordo molte, ma una, almeno una, la devo ricordare a memoria. Glielo devo a lui e anche un po' a me stesso. Mi viene in mente un haiku, la forma poetica d'origine giapponese: «È il primo vino: / calda schiuma che assaggio / sulla tua lingua». Posso fare di meglio ma mi viene in mente giusto una strofa di Ballata delle donne. Dovrebbe fare così: «Quando ci penso, che il tempo è venuto, / la partigiana che qui ha combattuto, / quella colpita, ferita una volta, / e quella morta, che abbiamo sepolta, / femmina penso, se penso la pace: / pensarci il maschio, pensare non piace». No, non mi piacciono poi molto questi versi. Non mi sono mai piaciuti. Eppure… Eppure mi sono rimasti in testa. Continuo a leggere il giornale, anzi i giornali, arrivo persino a comprare “Il Foglio”, ma giusto per leggere Berardinelli. “Il suo momento sono stati gli anni Sessanta, quando i suoi competitori e avversari, dotati degli stessi strumenti ma con animo diverso, erano gli altri due poeti ideologi: Pasolini, appunto, e Franco Fortini, a loro volta in polemica ma con un maggiore rispetto reciproco. Sanguineti invece ha sempre voluto essere e restare solo con la sua idea dell’avanguardia come unico tipo di letteratura novecentesca che avesse prodotto qualcosa di buono.”

Mi viene voglia di sorridere per almeno due motivi: il primo è che ho sempre preferito l'ideologia pasoliniana; il secondo è che forse il suo momento non sono stati gli anni sessanta ma questo maledetto diciotto maggio duemiladieci. Non dimentico gli aggettivi che gli erano stati attribuiti dopo la sua scelta di buttarsi in politica da ultrasettantenne. Quanto “vergognoso” fu per l'opinione pubblica il suo auto-affermarsi ancora marxista, come parallelamente fece anche Saramago in Portogallo, la sua utopia di un mondo migliore, di una società più giusta.

Ieri avrei voluto svegliarmi a Genova e pensare a parole in libertà, far scendere giù persino una lacrima per poi ripiegarmi in una grassa risata e togliere quel senso di vuoto che da due giorni porto dentro.      

   

Ad meliora, Flanerí!

«Ho abbastanza visto. Ho incontrato ovunque la visione. / Ho abbastanza avuto. Frastuono di città, la sera, e sotto il sole, e sempre. / Ho abbastanza conosciuto. Le fermate della vita. – O Frastuoni e Visioni! / Parto per affetti e rumori nuovi!»

Erano queste le parole “illuminanti” di Rimbaud a cui noi di Flanerí avevamo deciso di affidarci nei circa tre mesi di fatiche che ci avrebbero separato dal lancio ufficiale del sito. Tre mesi di duro lavoro, di confronti costanti e discussioni. Tre mesi in cui ognuno di noi, mettendo a disposizione degli altri ciò che aveva “abbastanza visto e abbastanza conosciuto”, si impegnava a rendere concrete e reali le idee che ci balenavano in testa da anni.

 

Oggi comincia il nostro vagabondaggio quali moderni flâneurs verso “affetti e rumori nuovi”. Starà a voi, d’ora in avanti, scegliere di seguirci in questo percorso nuovo e auspicabilmente diverso, fatto di incontri con scrittori affermati ed esordienti, di letture che ci appassioneranno o ci faranno riflettere, di eventi e spettacoli che cattureranno la nostra attenzione lungo il cammino. Con la vostra compagnia potranno, allora, prender forma e vita quei “frastuoni e visioni” di cui parla Rimbaud.Frastuoni e visioni” a volte nascosti in luoghi reconditi, celati dal rimbombo assordante dei nuovi media, altre volte evidenti e visibili alla luce del sole.

 

Così, scegliendo di volta in volta una guida che ci accompagni lungo il nostro cammino, parleremo di classici della letteratura mondiale con scrittori affermati e non, valuteremo le nuove uscite editoriali e ascolteremo chiunque abbia qualcosa di interessante da raccontare, perché riteniamo che in un mondo come quello in cui viviamo oggi, così tempestato di input e parole prive di senso, chiunque abbia una storia da narrare debba avere la possibilità di farlo, di renderne partecipe il maggior numero di persone possibile e lasciare a chi ascolta la facoltà di giudizio, una facoltà di cui, troppo spesso, veniamo inconsapevolmente privati.

 

Armati dunque di un discreto senso critico e di una curiosità fuori dalla norma iniziamo il nostro percorso perché, come cantava qualcuno un tempo: “Longo è lo cammino, ma grande è la meta!”. Che il vagabondaggio abbia dunque inizio.

 

d.decristofaro@flaneri.com