“La vergine eterna” di Kenzaburō Ōe

di / 30 marzo 2012

«Or sono molti e molti anni / che in un regno in riva al mare / viveva una fanciulla che col nome / conoscerete di Annabel Lee; / e viveva questa fanciulla senz’altro pensiero / che di amarmi ed essere riamata».

 Tokyo, 1975. Durante lo sciopero della fame per chiedere la scarcerazione del poeta sudcoreano Kim Chi-Ha, Kenzaburō, giovane scrittore con una straordinaria carriera artistica davanti a sé, viene avvicinato da un suo vecchio compagno universitario, Komori, ora produttore cinematografico, e da una misteriosa donna: l’attrice Sakura Ogi Magarshack, star del cinema giapponese trapiantata a Hollywood. Il produttore racconta che stanno preparando un nuovo film tratto dal Michael Kohlhaas di Heinrich Von Kleist per il bicentenario della nascita dell’autore, e vogliono assolutamente che sia lui, Kenzaburō, a scriverne la sceneggiatura riadattandola a un qualche analogo episodio della storia del Giappone. La risposta positiva dello scrittore non tarda ad arrivare, attratto, ancor prima che dal prestigio di tale proposta, dalla prospettiva di poter lavorare fianco a fianco con l’affascinante attrice che è rimasta impressa nella sua memoria fin dai tempi dell’università. Difatti è lei, Sakura, la protagonista di un filmato in 8mm che aveva visto durante quegli anni e che raccontava di una fanciulla in una «fluttuante veste bianca» sdraiata dormiente su un prato, mentre una voce narrante recitava i versi della poesia “Annabel Lee” di Poe. L’immagine struggente della ragazzina dai lunghi capelli d’ebano non l’aveva mai abbandonato durante tutti quegli anni: l’aveva solo trattenuta dentro di sé, sopita in un angolo della sua anima, e ora era pronta a esplodere in tutta la sua forza dirompente.

 La vergine eterna è la storia di Kenzaburō e della sua musa, Sakura, del loro sodalizio artistico; la storia di un rimorso e di un “rimosso” che li attanaglia in una stretta e non li lascia librare, mai. I colori stessi del romanzo sono quelli che albergano silenziosi nelle loro anime schiacciate dai ricordi: i grigi dei cieli densi di pioggia, delle metropoli allucinate dove il loro io è soffocato dal frenetico avvilupparsi della vita intorno. Solo il finale s’illumina di colori densi e pastosi, come in una tela espressionista: il giallo e il rosso vivi delle foglie autunnali e il verde muscoso e spesso della foresta dello Shikoku, luogo mitico, di una bellezza primitiva e seducente, restituiscono a Sakura, e al lettore che l’ha fino qui accompagnata, un barlume di fiducia nell’avvenire, la riconciliazione con se stessi, un profondo respiro di aria pura. Catarsi a cui, invece, non giunge Kenzaburō, che ha finora raccontato la storia tutta in prima persona e che, non a caso, non parteciperà al finale delle riprese nella foresta dello Shikoku. Lo vivrà come in un sogno, filtrato dal racconto che ne fa Komori morente su un letto d’ospedale a Tokyo, rimanendo per sempre congelato nella sua mente, aggiungendo rimorso al rimorso.

 È un romanzo estremamente autobiografico La vergine eterna di Ōe: l’autore tira le somme della propria esistenza attraverso una profonda riflessione sulla scrittura, sul linguaggio letterario messo a confronto con quello cinematografico. Tutta la storia appare come un pretesto per parlare di altro, di una crisi artistica, quasi esistenziale dello scrittore ormai avanti negli anni, tanto che gli stessi personaggi appaiono come marionette messe a disposizione del suo pensiero, della sua ferrea logica, troppo schiavi del suo onnisciente punto di vista. La vergine eterna è il romanzo di una sconfitta, e della presa di coscienza di tale sconfitta: la letteratura non potrà mai eguagliare la complessità e il grande mistero racchiuso in ogni singolo fotogramma cinematografico. La pellicola ha impresso per sempre in un attimo di estremo lirismo l’immagine di Sakura nella sua candida e fluente veste rendendola immortale. È bastata una sola inquadratura e lei è diventata la «vergine eterna», la donna bellissima, la diva che rimane intrappolata nella pellicola per sempre, come Louise Brooks, come il mito.


(Kenzaburō Ōe, La Vergine Eterna, trad. di Gianluca Coci, Garzanti, 2011, pp. 250, euro 18,60)

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