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Intorno a “Nel mare ci sono i coccodrilli”

di Marianna Giordano / 18 luglio

Tra i libri candidati al Premio Strega di quest’anno compare Nel mare ci sono i coccodrilli, di Fabio Geda. Il libro è un racconto, in prima persona, del giovane Enaiatollah Akbari, che dovette lasciare dall’Afganistan all’età di dieci anni, per sfuggire ai talebani dopo la morte di suo padre.

Il giovane era “alto appena come una capra” ma dovette diventare adulto prematuramente, iniziando così la sua odissea tra Pakistan, Iran, Turchia, Grecia ed infine Italia. Proprio nel nostro paese ha trovato persone aperte e disponibili ad aiutarlo, ha trovato la libertà e il suo futuro. L’Italia insomma è stata per lui “il posto in cui decidere di crescere”.

Nel mare ci sono i coccodrilli è un libro di grande attualità che invita riflettere sulle motivazione che hanno spinto questo giovane a lasciare il piccolo villaggio afgano da cui proviene per avventurarsi in viaggi dalle condizioni estreme, verso un mondo a lui del tutto sconosciuto.

L’Afganistan oggi è noto soprattutto per il terrorismo e le guerre. Chiunque istintivamente collega questo paese con le tragiche immagini dell’11 settembre. Oggi in Afganistan si trovano la popolazione indigena, divisa nelle diverse etnie. Si trovano i talebani e si trovano i militari, inviati dagli Stati Uniti e dalle forze congiunte dell’Unione Europea. È un paese che permette di provare esperienze di vita incredibilmente forti. Dopo il punto di vista di Enaiatollah Akbari sentiamo ora quello di Sergio Giordano. Dopo quello di un bambino, quello di un adulto. Dopo quello di un afgano, quello di un italiano inviato là al seguito della missione ISAF VIII (International Security Assistant Force) con l’intento di stabilizzare e ricostruire il paese. Quando il contingente italiano venne mandato in Afganistan Enaiatollah era già partito dal suo villaggio, Nava, gli occhi di entrambe queste persone hanno visto lo stesso scenario dello stesso paese. Persone così lontane e diverse raccontano storie molto simili.

Il militare racconta che all’arrivo delle truppe italiane il paese era «distrutto, arretrato e comunque bellissimo. Un paese di contrasti, segnato da trent’anni di guerra che gli hanno impedito di svilupparsi come meritava». Nello specifico la sede in cui si trovava era a Kabul «tra le più tranquille del paese, nonostante ci fossero già le premesse di un nuovo “arretramento”». Inoltre conferma ciò che Enaiatyollah riassume con un modo di dire talebano: «“Ai tagiki il Tagikistan, agli uzbeki l’Uzbechistan, agli hazara il Goristan”. E Gor significa Tomba». Spiega anche come l’etnia hazara sia «la più tartassata da tutta la popolazione. È la quarta etnia dopo pasctun, tagichi e uzbechi ma sono gli unici a essere sciiti, e per questo sono disprezzati e marginalizzati dal resto della popolazione che è sunnita. Comunque nel periodo in cui mi trovavo lì sono stati politicamente riconsiderati grazie all’appoggio dell’Iran, anch’esso sciita». Ma non è necessario essere hazara per essere presi di mira dai talebani in Afganistan, l’ufficiale racconta infatti di aver  incontrato uomini che a causa loro sono stati rinchiusi in prigione. «Erano per lo più ufficiali dell’esercito afgano e per questo ritenuti “oppositori”».

Spesso a questi popoli non resta altro che la fuga. Chi ha vissuto in questi luoghi, chi ha visto con i propri occhi ciò che accade tra queste montagne capisce veramente cosa rappresenti per loro “la fuga”: «è la ricerca di un paese pacifico, di un’esistenza migliore. In Afganistan ci sono generazioni nate e cresciute sotto la guerra, in un paese bellissimo ma distrutto. Per esempio, Kabul negli anni settanta era una città verdeggiante e ricca di parchi ma i russi e i talebani hanno distrutto tutto. I primi per creare campi da tiro per le armi, i secondi per procurarsi legna da ardere e soprattutto per punire questa “città corrotta”». Proprio per questo oggi il fenomeno dell’immigrazione è dilagante e molto delicato da risolvere, se non addirittura irrisolvibile. L’ufficiale infatti sottolinea che «non si può fermare chi fugge perché sta male e cerca una vita migliore. Bisognerebbe piuttosto creare condizioni di vita migliori nei paesi da cui la gente scappa, ma questo non è facile. Si tratta di paesi dominati da etnie, tribalismi, corruzione, povertà endemica e dove ci sono ricchezze naturali, speculazioni e arricchimenti da parte di altri paesi». E così la gente è disposta ad accettare di viaggiare in condizioni pessime. Enaiatollah racconta di aver trascorso tre giorni accovacciato nel doppio fondo di un camion, di aver attraversato camminando le montagne e di aver oltrepassato il mare a bordo di un canotto rattoppato con dello scoth. Il nostro interlocutore aggiunge che «un altro mezzo molto utilizzato sono le autocisterne. I clandestini vengono chiusi all’interno senza né aria né cibo e questi veicoli arrancano lungo le impervi tornanti della Jhialalabad road che porta al Kjber Pass: al Pakistan e quindi alla libertà». Ci conferma inoltre che è proprio il confine del Pakistan quello maggiormente attraversato dagli Afgani in fuga, «data anche l’affinità delle popolazioni che vivono nella zona di confine, il Pasctunistan. Fino all’ottocento infatti questa zona non era delimitata, il confine venne tracciato dagli inglesi, ma non fu mai accettato dalla popolazione. Per concludere questo quadro ci spiega che il fenomeno della “primavera araba”, di cui oggi si sente molto parlare, non ha ancora toccato l’Afganistan. «È un fenomeno che per ora ha toccato solo i paesi più avanzati culturalmente ed economicamente, ad eccezione dello Yemen, ed è dovuta principalmente alla crisi economica dell’Egitto, Tunisia, Marocco e Libia. L’Afganistan ne è rimasto escluso perché è ancora in guerra e perché, oggi, è sottoposto alla prevalenza talebana che non permette di creare le condizioni di esprimere liberamente le proprie idee. Questo vale sia per la campagna, a causa della presenza dei talebani, sia in città, dove il governo Karzai non riesce a far progressi in campo democratico in quanto espressione del tribalismo locale».

Successivamente ci soffermiamo su un altro punto molto toccante del racconto di Enaiatollah Akbari, quello del “tempo”. Il ragazzo infatti dice che non scorre allo stesso modo in tutti i paesi, e il militare ci conferma anche questo. Specifica che delle differenze si possono osservare anche all’interno dello stesso Afganistan. «Certe zone»racconta, «sembrano il paradiso terrestre con nevi perenni, fiumi impetuosi e vallate verdeggianti. In altri villaggi invece sembra che il tempo si sia fermato. Ho visto il mercato di un villaggio dove c’era ancora gente che andava a caccia col falco o col fucile avancarica».

Vogliamo scavare più a fondo anche il ruolo la figura femminile, la madre del protagonista del libro gli dona la possibilità di costruirsi un futuro abbandonandolo. Un gesto estremo per qualsiasi mamma. Ciò che specifica il nostro interlocutore è che differentemente dall’idea che ci siamo fatti della “donna araba” sottomessa e sottovalutata dall’intera società, il ruolo della donna è fondamentale, è a loro che spetta il compito di crescere i figli. La storia narrata è calzante con l’idea che mi sono fatto di queste donne, disposte a gesti simili pur di impedire il sacrificio dei propri figli. Ed è la scarsa considerazione dei bambini uno degli aspetti più negativi della società afgana. Per esempio, mi è capitato di parlare i maestri delle scuole in cui portavamo aiuti (che generalmente sono divise per maschi e femmine, con eccezione per alcune zone del paese), e il loro atteggiamento manifestava disprezzo per l’educazione». Proprio per questo ci racconta, quando gli accenniamo a come è stata chiusa la storia di Enaiatollah, che gesti come questi in Afganistan sono frequenti, in particolare si riferisce agli «incendi delle scuole, prima solamente femminili e successivamente anche maschili. L’intento dei talebani era di indebolire il potere centrale, volto alla costruzione di una nuova società basata sull’istruzione delle nuove generazioni non ancora compromesse dalla guerra. I talebani al contrario volevano distruggere questa politica, a partire dalle zone rurali, per cui uccidevano i maestri e costringevano i bambini (solamente maschi) a frequentare le madrasse, “le scuole coraniche” dove imparano solo il corano a memoria e venivano preparati alla Jhiad».

Per concludere vogliamo sapere di più, a livello umano, del bagaglio culturale che un’esperienza del genere dona. Per esempio gli chiediamo di raccontarci quali sono stati l’avvenimento più bello e il più brutto dei mesi trascorsi lì.

«Innanzitutto posso dire che come esperienza di vita è stata unica e irripetibile. Mi ha permesso di conoscere un paese povero e semidistrutto ma nonostante ciò orgoglioso. Ho visitato posti stupendi e sono fiero di aver contribuito, per quello che mi è stato possibile al risollevarsi di quella popolazione. Tra i ricordi più bellic’è il viaggio nella Valle del Panshjr per il paesaggio aspro ai piedi delle montagne, ma più in generale la bellezza delle popolazioni locali, dei bambini dagli occhi azzurri e i capelli biondi, stupendi». Dopo una breve pausa per frugare nei ricordi, quelli più lontani, quelli che si cerca di dimenticare aggiunge il ricordo più brutto: «Un giorno, durante una consegna di attrezzature in una scuola femminile di Kabul, il maestro con il quale abbiamo cercato un colloquio ci ha accolto con disprezzo. Mi è parso subito un essere laido, per nulla interessato alla sua professione e del quale mi è sorto subito il sospetto che, oltre a essere un talebano approfittasse delle sue alunne». Poi gli abbiamo chiesto di raccontare le sue impressioni sulla situazione dell’Afganistan oggi, dopo la ripetutamente annunciata uccisione di Osama Bin Laden. Anche in quest’occasione il tono della voce è fermo ma si avverte una nota di amarezza nelle parole. Innanzi tutto specifica che la morte di Bin Laden non ha influito molto sulla situazione politico-militare del paese, dopotutto il suo ruolo si limitava a quello di capo spirituale. «Apparentemente»dice «L’Afganistan oggi è un paese senza speranza. Spero di sbagliarmi ma il quadro è pessimistico. Secondo la mia opinione la storia si ripeterà, come ai tempi dell’occupazione russa, le truppe ISAF si ritireranno e le forze locali non riusciranno a mantenere l’ordine. La corruzione è dilagante, il rilancio economico stenta a decollare e i talebani potrebbero riprendere il possesso del paese. Ma no, non è stato tutto inutile e alla domanda se il sacrificio di chi è morto è stato inutile rispondo che, in ogni caso, la morte di chi è caduto cercando di fare del bene ad un popolo in difficoltà non può essere vana».