Flanerí

Libri

Lucian Freud

di Massimiliano Coccia / 28 luglio

Ho conosciuto un uomo qualche autunno fa, era in libreria, una libreria del centro di Roma e fuori faceva freddo. Se ne stava seduto in disparte su uno di quegli sgabelli che servono per prendere i libri. Aveva ritagli di giornale tra le mani che quasi accarezzava. Non sapevo chi fosse era avvolto in un cappotto di lana e le sue mani sembravano dei rami d’alberi, di quegli alberi alti che si trovano o nella Foresta nera o nei sobborghi londinesi. Prese un libro e lo accarezzò guardava alcune immagini sotto il riflesso della luce, sorrise appena un poco ad una commessa dai capelli biondi e l’aria distratta, la fissò per un attimo come a volerla fotografare. Notai sui suoi pantaloni un po’ di colore giallo che emergeva e allora pensai a lui come ad un imbianchino o un manovale che leggeva un libro d’arte.

Quell’uomo non era nulla di tutto questo, non era la figura anziana che avevo visto o forse immaginato, quell’uomo forse neanche c’era seduto lì, ma quel libro, quel catalogo, si. E’ allora che conobbi Lucian Freud, le sue pennellate silenziose e dure, la sua maledetta voglia di esserci, di raccontare questo nostro corpo così straziato dalla vita, raccontarlo talmente tanto da farlo vivere di vita propria, da farlo brillare di luce propria. Mi sono perso in quelle pagine, tra quei nudi così ruvidi e quella pelle di donne addormentate dall’amore o dalla noia e ho riso a vedere la Regina ritratta o mi sono quietamente assopito nel vedere una stanza con un panorama della vecchia Londra in sottofondo, quei genitali cadenti sul mondo, come a ricordare la lenta decadenza del genere umano.
Lucian Freud non è stato un pittore, è un pittore che resisterà al declino del tempo e della memoria perché con la sua arte si può capire, amare, disprezzare, abbandonare, inventare, la sua arte è vita, vita che passa indenne alle mode e ai momenti. L’arte di Freud è cresciuta nei suoi 88 anni, come un figlio cresce nel ventre della madre, con la stessa voglia di venire al mondo che ha animato i suoi volti, celebri, sconosciuti, oscuri, che ha generato sulla tela.
Con Lucian Freud scompare uno degli ultimi maestri della pittura contemporanea, lontano da etichette, tappeti rossi e sfarzo inutile, aveva la sua irascibilità e il suo mondo che cullava nella sua pittura, che diventava genesi e cosmogonia della bellezza. “Io amo l'ombra così come amo la luce. Ambedue sono necessarie perché un volto possa essere bello”, scriveva Nietzsche e Freud viveva della stessa importanza, scavava nell’ombra interiore dei personaggi, esaltava la visione prospettica dell’Io e del Super-Io, della luce e della lucentezza dell’anima che traspare dalle sue tele.
Ogni uomo ha uno scopo su questa terra, ogni artista ha la propria meta e Lucian Freud dopo 88 anni di ricerca questa meta l’ha raggiunta, rendere abitate le proprie tele, renderle nuovi posti, nuovi mondi e forse adesso sarà da qualche parte a ridere di tutto questo rumore che ha suscitato la sua dipartita,  riderà di tutto questo che continua anche in sua assenza, riderà perché in ogni foto da vivo il suo broncio era perenne. Riderà anche di questo articolo e di quel ragazzo che per amore lo scopriva qualche anno fa, scambiando la sua presenza con un miraggio e confondendo un sogno con la vita vera.
Se passate in libreria potete trovare il catalogo completo delle sue opere: Lucian Freud, di Feaver William, 2007, Rizzoli, I Libri illustrati. Perché basta un catalogo per conoscere un mondo nuovo.