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“Nevermind”, venti anni dopo

di Alessio Belli / 24 settembre

Quando un disco fa la storia della musica i motivi sono tanti e ognuno influente e considerevole. Se penso a Nevermind non realizzo subito un aggettivo specifico o un aspetto in particolare, ma immagino immediatamente tutte le persone che dopo aver ascoltato quel disco hanno deciso di far entrare il rock nella loro vita. Non credo siano quantificabili i ragazzi e gli ascoltatori, che dopo aver sentito per la centesima volta in un pomeriggio, a ripetizione continua, il riff iniziale di Smells Like Teen Spirit, hanno deciso di comprare una chitarra elettrica e tirare su una band. Se un disco è davvero un capolavoro, allora non viene solamente messo in testa alle classifiche o ripetutamente celebrato con allori: no, la vera essenza si vede in quante vite ha cambiato, compresa quella del rock stesso, che da quel 24 settembre 1991 non è più stato lo stesso.

Celebrando e ricordando il ventennale del disco possiamo notare come Nevermind sia durato molto di più delle mode e della chiacchiere, spesso superflue, con cui si cataloga e confeziona un fenomeno da 25 milioni di copie. Non è stato solo il modello per eccellenza del sottogenere rock ribattezzato grunge da Mark Arm dei Mudhoney, quel Seattle sound in cui si mescolava senza confini precisi hard rock e punk, suonato da ragazzi con le Converse logore e la camicie consumate parecchio più grandi dell’effettiva taglia. È molto di più del prodotto discografico in cui la parabola umana e compositiva dell’angelo dannato chiamato Kurt Cobain trova compimento. È molto di più dello sfogo ritmico disumano di un Dave Grohl che alla batteria fornisce parecchio materiale da studiare per chi vorrà cimentarsi con quello strumento da li in avanti. Nevermind supera anche l’accostamento alla Generazione X: quella fascia di adolescenti e anche più, uscita dalle macerie e dalle ipocrisie degli anni ‘80, senza nessuna bandiera o idolo da seguire e da imitare.

Iniziamo allora a dire quello che Nevermind effettivamente è. Posizionandolo nel grafico della storia della musica è un nuovo “Anno zero”. Un’esplosione di rinnovamento e freschezza, la consapevolezza che è ancora possibile fare del rock vivo, genuino, puro e sporco, capace di emozionare e far urlare di felicità e rabbia alla stesso tempo. La rassegnazione opprimente, il senso d’inutilità erano spariti: con quelle canzoni nelle orecchie potevi davvero fare quello che volevi.

 I Nirvana, con il loro secondo album, hanno tolto tutta la polvere e la fuliggine che s’era depositata sul vecchio “Tirannosauro” ed esortato i giovani ad esprimersi per ciò che erano, fregandosene dei giudizi dominanti. Per capire l’importanza di questo disco, anche tra gli “addetti ai lavori”, basta prendere l’esempio eccellente e significativo di Monster dei R.E.M. La band di Stipe era una sorta di tutor per i Nirvana, soprattutto per Cobain, che ad un certo punto deciderà addirittura di mollare il suo gruppo per lavorare solo con la band di Athens. Bene, Cobain muore e i R.E.M. – una band che più o meno involontariamente ha influenzato tre buone decadi di rock – passano da Automatic for the people (ovvero arrangiamenti orchestrali e chitarre acustiche) al citato Monster (ovvero pedali, distorsori e chitarre elettriche ruggenti). Tutto questo perché era impossibile, ormai, prescindere da Nevermind. Penso anche a My iron lung, il singolo dei Radiohead (altro peso massimo del genere). Ci sarebbero da citare gli imitatori, più o meno meritevoli d’essere accostati al nome dei Padri, quelle band che una volta avuto l’opportunità discografica hanno deciso di fare il proprio Nevermind; sono un’infinità e non conviene nemmeno menzionarle.

Quello che va detto è che se dopo vent’anni siamo ancora qui a parlare di Nevermind è perché ogni singola traccia che lo compone è un capolavoro unico e particolare, un elemento chimico che crea quel legame magico, storico e irripetibile. Il meglio dei Pixies, degli Husker Du e dei Beatles si fonde nella rauca voce di Cobain, capace di passare dallo squarciamento vocale di Stay away, alla dolcezza quasi materna di Polly. Non esiste nel disco qualcosa fuoriposto, di eccessivo, da togliere; ogni particolare è messo lì per restarci in eterno: dal basso indimenticabile di Novoselic che apre Come as you are, alla stessa voce del bassista che introduce il fragore irresistibile di Territorial pissing, fino a Drain you e On a plain, il meglio da poter mettere al massimo negli stereo. E poi Lithium, Breed , Something in the way, ogni rullata o accordo che non va più via dalla memoria. Senza ricordare quanto ci strugge risentire ogni tanto la voce di Kurt, il dolore che non trovava pace nemmeno dopo un capolavoro del genere.

Ma tornando a Nevermind è proprio questa la sua grandezza, che prescinde da tutto, anche da chi l’ha composto. È solo rock. Il più grande dal 1991 ad oggi.