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“Due storie pietroburghesi” di Nikolaj Gogol’

di Chiara Gulino / 5 aprile

Da Angelo De Gubernatis a Cesare De Michelis. Al primo si deve il merito di aver fatto conoscere in Italia uno dei più grandi scrittori russi della prima metà dell’Ottocento, Nikolaj Gogol’, pubblicando su Rivista europea nel 1877 la prima traduzione, firmata con le iniziali E.Z., de “Il giornale di un pazzo”, racconto del 1834, compreso nella raccolta miscellanea Arabeschi (1835). Al secondo invece si deve l’ultima versione, per la collana Sírin Classica di Voland, di due famosi racconti dello scrittore russo: “Corso Nevskij”e “Brandelli dal memoriale d’un matto”.

Qual è il senso di un’ulteriore traduzione oggi di Gogol’?
Intanto Due storie pietroburghesi permette di leggere o (si spera) di rileggere due gioielli di un genio della letteratura russa perché Gogol’, rappresentando ogni tipo umano, rispecchia la Russia di allora come quella di oggi.
L’operazione di Cesare De Michelis, ordinario di letteratura russa dell’Università Tor Vergata di Roma, è tanto più necessaria perché cerca di restituire la patina linguistica originaria del testo, recuperando i significati ottocenteschi di alcune lemmi (vedi le note) ormai obsoleti e i realia su cui si basano alcune trovate dei racconti. Le due storie fanno parte, insieme a “Il ritratto”, “Il naso” e “La mantella”, dei cosiddetti Racconti di Pietroburgo (titolo non gogoliano). È proprio la città di Pietroburgo con le sue ambiguità tra realtà scintillanti e meschinità la vera protagonista.

“Corso Nevskij”, meglio noto come “Prospettiva Nevskij” dall’attuale nome russo (nella postfazione De Michelis ci spiega la scelta di renderla in italiano con “corso” anziché “prospettiva” o “prospetto”), è la principale strada di Pietroburgo che, seguendo il fiume Neva, è fiancheggiata da palazzi molti dei quali opera di architetti italiani. Lunga 4,5 km, si estende dalla piazza del Palazzo d’Inverno a quella del monastero di Sant’Aleksandr Nevskij (principe di Novgorod, vittorioso sugli svedesi nel 1240 presso il fiume). È il vero cuore pulsante della città: «Non c’è niente di meglio del Corso Nevskij, almeno a Pietroburgo; per la città è tutto. Di cos’è che brilla, questa strada-maliarda della nostra capitale? […] Questo è l’unico posto dove la gente si fa vedere non per necessità, dove non è spinta dal bisogno e dal tornaconto bottegaio che permea tutta Pietroburgo. È come se uno, incontrato sul Corso Nevskij sia meno egoista che sulla via Morskaja, sulla Gorochovaja, la Litejnaja, la Meščanskaja, o in altre strade dove la cupidigia, l’interesse e il bisogno si rivelano nei pedoni e in quelli che sfrecciano in carrozze e calessi».
A ogni ora il corso si riempie di gente appartenente ai vari strati sociali: al primo mattino «i poveracci si radunano alle porte delle pasticcerie» a mendicare gli avanzi; dopo mezzogiorno i precettori e le istitutrici con i loro pupilli e fanciulle; alle due i genitori con i loro impegni privati; alle tre i «funzionari in verdi uniformi civili». Al crepuscolo il Corso Nevskij si anima sotto la luce dei lampioni di giovanotti scapoli alla ricerca di qualche avventura. La causalità degli incontri fa poi parte del folklore pietroburghese.
La lente deformante con cui l’autore russo guarda la realtà si sofferma su particolari insignificanti, fra vitini di vespa «non più grossi d’un collo di bottiglia» e «favoriti vellutati», per gettare una luce grottesca e straniante.
È da questo fulcro nevralgico che si dipartono i destini paralleli e speculari dei due protagonisti del racconto: il pittore Piskarëv e il tenente Pirogov. Entrambi subiranno il fascino di due fanciulle, una bruna e una bionda. Entrambi si scotteranno al fuoco della loro infatuazione, l’uno con esito tragico quando dall’idealizzazione del sogno si scontrerà con la mediocrità dell’esistente, l’altro con esito comico quando la sua cresta da bellimbusto verrà abbassata dalle bastonate del marito della biondina tedesca. 
Il racconto ha una struttura bipartita e in sé conclusa ad anello: si apre e si chiude su Corso Nevskij.

Meglio conosciuto come “Diario di un pazzo”, “Brandelli del memoriale d’un matto” è un viaggio nella schizofrenia di un povero impiegato piccolo borghese la cui smisurata ambizione frustrata porterà a smarrire identità e ragione. 
Akesentij Ivanovič Popriščin ha 42 anni e il compito di temperare le penne d’oca del direttore del suo Dipartimento e ha la sventura di innamorarsi della figlia di questi. Il divario sociale rende questo sogno d’amore impossibile. La mente di Popriščin sprofonda così nel più totale delirio il cui aggravarsi è certificato dal progressivo confondersi delle date nel suo diario fino all’ultima disperata pagina datata «Ad 34 dì Mes. Dell’anon.349 febbraio»: «No, non ho più forze per sopportare. Dio mio! Che cosa mi hanno fatto! Mi versano acqua fredda in testa che mi spacca il cranio come un dardo! Non mi danno retta, non mi vedono, non mi ascoltano! Che cosa gli ho fatto? Per quale ragione mi tormentano? Che cosa vogliono da me, poveretto? […] Mamma, salvail tuo povero figlio! Versa almeno una lagrima sulla sua testolina malata! Guarda come lo tormentano! Stringiti al petto, l’orfano infelice! Non c’è posto per lui a questo mondo! Lo perseguitano! – Mamma! Abbi compassione del tuo bambino malato!…Ma voi lo sapevate che il Dej d’Algeri ha una verruca proprio sotto il naso?».
I vari frammenti del racconto seguono le varie fasi della follia del protagonista fino al regresso infantile finale. Il “matto” era un tipo letterario che conosceva all’epoca una ricca fioritura (ad esempio Hoffmann), affondando le radici in Erasmo da Rotterdam, Ariosto, Shakespeare e Cervantes.
È veramente godibile seguire i ragionamenti strampalati di Popriščin. La follia non era che una vera e propria piaga sociale: la burocrazia e la mediocrità stritolavano i poveri impiegati in una morsa che portava gli individui alla morte o la pazzia.

Da Gogol’ ho imparato che la letteratura è dei miserabili e dei mediocri piuttosto che degli eroi. Fa godere delle sconfitte altrui per non costringere a piangere delle proprie.


(Nikolaj Gogol’, Due storie pietroburghesi, traduzione di Cesare Giuseppe De Michelis, Voland, 2012, pp.144, euro 10)