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“Dalla morte al mattino” di Thomas Wolfe

di Luigi Ippoliti / 17 luglio

Basta partire dal fatto che l’editore di Thomas Wolfe è lo stesso di Faulkner, Hemingway e Fitzgerard – Maxwell Perkins – per capire che, in fondo, la portata letteraria dello scrittore nato nel 1900 ad Ashville sia, e sia stata, incredibilmente sottovalutata nella storia della letteratura.

Thomas Wolfe è uno scrittore che plasma la realtà attraverso la scrittura. La scrittura diventa essa stessa realtà in una simbiosi quasi feroce che non ne permette alcuna distinzione: la realtà si nutre della scrittura come la scrittura si nutre della realtà, e la scrittura di Wolfe vive di una libertà inaudita.

Attraverso un lirismo che raggiunge vette altissime – a volte la percezione di essere andati troppo in là è più che solo un retro pensiero, ma la coerenza stilistica è calibrata alla perfezione –, Wolfe ci catapulta in un mondo ai margini del mondo stesso, nelle storie di uomini soli, nella distanza tra l’uomo e l’infinito: ci catapulta in Dalla morte al mattino (CartaCanta Editore, 2014), raccolta di racconti uscita per la prima volta negli Stati Uniti nel 1929 (in quell’anno, sempre negli Stati Uniti, vengono pubblicati L’urlo e il furore di Faulkner e Addio alle armi di Hemingway).

Sono racconti, pezzi di vita strappati alla realtà e riproposti su carta con una potenza inaudita. La capacità di Wolfe di descrivere la più piccola delle azioni quotidiane ed elevarla a momento fondamentale della Storia dell’Universo è così sbalorditiva da far pensare di poter cambiare i rapporti e i significati a cui siamo abituati, di stravolgerci; il più piccolo dei frammenti dell’esistenza, attraverso la sua visione a dimensioni infinite del mondo, è l’istante più importante di tutti. L’inizio e la fine sono concetti limitanti in questi brandelli di umanità, a volte il punto di vista cambia senza seguire alcuno schema preciso – senza scivolare in un alto territorio, il post modernismo –, tutto si mescola in un imponente flusso di voci scurissime.

Ed è una scrittura muscolare, quasi erotica, dove ogni parola pesa come una sentenza sull’Essere Umano: e lo fa attraverso l’errare di cinque vagabondi, attraverso la guerra che striscia lungo tutta l’opera, che diventa a tratti un’ode alla guerra, che sembra quasi influenzata – magari non così estrema da essere sola igiene del modo – dalla poetica futurista, che porta nuovi stimoli, nuove realtà, una nuova conoscenza con i suoi rombi e la sua velocità, la sua immanenza; alla storia di uno pseudo Gulliver, spunto per descrivere la percezione individuale dell’essere non omologati, non come gli altri – il percepirsi giganti solo nel momento in cui l’altro ti percepisce gigante; attraverso la morte, così potente e netta, vista dagli occhi di un uomo che l’ha vissuta per quattro volte.

Le storie narrate sono definite dalla scrittura stessa di Wolfe, che prendono forme diverse, formandosi lungo le capacità strabilianti dello scrittore americano di fare ciò che vuole con le parole. Un demiurgo ai limiti delle proprie potenzialità. Si percepisce il respiro antichissimo del tempo, la sospensione delle cose, il cuore pulsante della Storia; e il parlare di ciò di cui parla e di come ne parla, non può che essere anch’esso iperbole.

Ci inoltriamo nell’universo di dedali che fanno di Dalla morte al mattino una specie di mappatura della parte nera dell’uomo, della sua perenne ricerca di qualcosa, del suo impossibile tendere verso un infinito fatto di una sostanza non intangibile, ma paradossalmente viva e fisica.

Una raccolta che toglie il fiato per la sua complessità e la sua possibilità di lettura, dove non esiste un giudizio o una morale, ma solo uno scorrere di vite umane nei loro insulsi microcosmi che si scontrano con la maestosità dell’infinito. E interrogarsi sul perché Thomas Wolfe non faccia parte dell’Olimpo degli scrittori americani risulta più che doveroso, una necessità.

(Thomas Wolfe, Dalla morte al mattino, trad. di J. Lenkowicz, CartaCanta Editore, 2014, pp. 247, euro 15)