Flanerí

Libri

Cercando la “poesia” del fatto narrativo: intervista a Mario Massimo

In occasione dell'uscita di "Scavi dentro il tempo"

di Cristiana Saporito / 20 aprile

Lo scrittore, quello vero, è uno sfidante. Lo fa perché non può esimersi. E lo fa rischiando. Sempre. Scaglia il guanto contro il lettore, contro se stesso, contro l’oggetto indifeso del suo narrare. Coglie un brandello e lo disattende, anche giurandosi fedele, anche attenendosi ai fatti. Sapendo bene che non c’è alternativa.
L’autore incontrato oggi ci propone un’acrobazia, un doppio avvitamento, un’immersione inaspettata nei suoi Scavi dentro il tempo (Empirìa, 2015, pp. 103, euro 14). È questo il titolo della nuova raccolta di racconti di Mario Massimo: un affresco di epoche e atmosfere distanti, accostate in un pugno di pagine sapienti.

Dieci storie della Storia per disseppellire personaggi e umori di uomini e donne comuni o misconosciuti all’ombra di nomi ben più ingombranti e di eventi che li schiacciano, che appunto, in quanto creature letterarie e umane, li feriscono, li espongono al pericolo. Si parte dai ricordi del Golgota, per proseguire nella casa di Brunetto Latini, attraverso il silenzio creativo di Juana Inés dela Cruz, fino ad approdare al teatro del Novecento. Ogni episodio è un’eco, un passaggio nelle viscere di giorni che Mario Massimo resuscita, con eleganza e maestria. Ma abbiamo l’occasione di chiedere direttamente a lui.

 

Da cosa deriva la sua passione per il racconto storico, comune anche alla sua pubblicazione precedente La morte data? E quindi, da quali scavi è nato questo libro?

Credo si possa far risalire a uno dei miei “primi amori” di lettore, se ricordo bene intorno ai quindici anni, Lucrezia Borgia di Maria Bellonci; poi ci fu la Banti di Artemisia e di Lavinia fuggita, o anche il superbo impasto stilistico del Gattopardo, di cui pure mi aveva deluso quella che mi parve difettività dell’intreccio; più tardi ancora, e meglio, la Yourcenar. Mi affascinava (e forse non è casuale che si sia trattato, per lo più, di scrittrici), proprio il crearsi sulla pagina di una realtà totalmente altra, rispetto alla mia di ogni giorno, e tuttavia non fantastica, arbitraria, ma precisa e rigorosa come i passi di una danza. Quanto alla parola “scavo”, non sta all’inizio del procedimento narrativo: è stato Paolo Di Paolo, per così dire a cose fatte, leggendo il dattiloscritto, a formularla: e, mi sembra, in modo assai calzante.

 

C’è un personaggio o un’epoca a cui è più legato?

Più che un personaggio, direi un tipo di personaggio: quello a cui il rapporto con gli altri, con l’altro-da-sé, sia più facilmente fonte di fraintendimento, di offesa, e non per sadismo, ma perché è da questo che mi sembra nasca meglio la “poesia” del fatto narrativo. Come epoca, forse no: c’è una specie di equidistanza dei tempi e degli spazi, rispetto all’oggi, data dal riviverli con la ragione, e insieme con il sangue.

 

Nella stesura di un testo simile, quanto conta il rigore della documentazione e quanto invece lo slancio d’invenzione?

L’acquisizione di elementi oggettivi – tempi, movimenti, abitudini – è, di per sé, un bisogno della ragione, che si sforza di sapere quante più cose possibili, intorno a quella vicenda umana, svoltasi in quella dimensione di tempo e di luoghi: e certo, quanto più preciso è il quadro, lo sfondo, tanto più agevole diventa l’immersione, se così posso dire, in esso; ed è a quel punto, che “scocca la scintilla”, s’innesca il processo d’identificazione col personaggio, il sentirtelo respirare addosso, pensare attraverso i tuoi pensieri. Insomma, se volessimo buttar giù un recipe come Gadda col risotto, un pugnello, eguale, di entrambi.

 

Paolo di Paolo ha definito questo libro «consapevolmente inattuale», non soltanto per l’elemento contestuale, ma anche per la marcata scelta di un linguaggio e di uno stile dotti, ricercati, distanti dall’uso comune. Qual è l’intento? Ricostruire il “colore locale” o c’è dell’altro? Che funzione ha quindi una parola così colta in un tempo di espressioni asciutte e vocabolari fragili?

Anche qui, Di Paolo ha visto forse dentro di me e dentro questi testi più chiaro di quanto non facessi io, ma non vorrei che il parlare di “consapevolezza” – che pure c’è, né potrebbe essere altrimenti, per chi abbia occhi aperti sull’attuale realtà editoriale italiana – facesse pensare a un voluto, elitario chiudersi in un hortus di montaliane «piante dai nomi poco usati»; l’intento è diverso. Diciamo che c’è, nello stemma da cui discendono queste creature, se non il grande fantasma di Gadda, forse più precisamente quella che fu, nel primo Novecento, la prosa d’arte: la scommessa era però di non limitarsi, come Cecchi o il Gadda dei Mirabilia, a squarci di prosa solo descrittiva, ma provare a stenderla su più ampie campate narrative, sia pure nell’ambito conciso e incalzante del racconto: vogliamo parlare di poème en prose (narrativo, però)? Circa la funzione, non saprei: a meno che non sia scelta merceologicamente avveduta, quella di fare, a un mercato invaso dai prodotti standardizzati e ripetitivi, una proposta di cui non sia facile reperire il doppione.

 

In alcuni racconti ricorre spesso il riferimento al teatro e in particolare all’Opera. C’è un motivo particolare?

Certo, può esserci una componente di gusto personale; ma, se questi racconti nascono tutti come momento in cui un’esistenza umana s’incrocia con l’altro, col diverso da sé, e ne accetta il confronto – per quanto questo possa voler dire riceverne l’urto di un’offesa, o ferita, o malinteso –, ecco forse allora il teatro è, per elezione, il luogo dell’incontro con gli altri noi stessi (e come non pensare alla scena, soprattutto a quella dell’opera lirica, come a una realtà dichiaratamente altra, e tuttavia capace di dare espressioni della più sfolgorante persuasività agli aspetti più chiusi e disarmati dell’animo umano?).

 

Quali sono i suoi progetti narrativi? Un romanzo?

Non vorrei che il racconto venisse sentito come scalino inferiore in un’ascensione verso forme meno “semplificate” e più meritevoli di considerazione: forse deciderà per me – come è stato quasi sempre, finora – la stanchezza della storia su cui sto lavorando.