Flanerí

Libri

“Io, Hitckcock. Il maestro del brivido si racconta”

Interviste, saggi e discorsi

di Michele Lupo / 29 giugno

Vi è fra i recensori del recente volume Io, Hitchcock. Il maestro del brivido si racconta (Donzelli, 2015), chi nega a Gli uccelli o a Psycho il potere di rinnovare il silenzioso tumulto di piccole ansie e schock deliziosi che gli amanti del genio inglese ben conoscono. Sostiene lo stesso giornalista di cui sopra che i film di Hitchcock sarebbero invecchiati perché «non hanno nessun rapporto con la realtà». A parte il curioso modo di intendere il cinema – o l’arte tout court? dovremmo chiederci cosa farcene de Las Meninas? – caso mai avrebbe da guadagnarne quello di Hitchcock se lo intendessimo intanto come un esercizio sullo/dello sguardo (ricordiamo una splendida lettura de La finestra sul cortile di Roberto Calasso che lo metteva in relazione con la filosofia indiana). Non ci sarebbe bisogno di ripetere come molti monumenti dell’arte del passato stiano egregiamente in piedi perché a) oggetti linguistici conclusi in sé stessi senza bisogno di avere referenti nella realtà empirica, men che meno “attuale”, b) la loro forza sta nel modo in cui ci parlano delle cose, non nelle cose di cui parlano.

Ma possiamo abbassare il tiro. Se Hitchcock non muore mai, il motivo è, contro ogni ragionevolezza della natura, fisiologico. Perché lo spettatore che gli è fedele sa quanto gli facciano bene i suoi film. S’intende proprio alla salute. «I brividi – sosteneva il genio inglese – sono “scosse mentali positive e salutari». Sì che il suo cinema può vivere – come dovrebbe essere – di vita propria senza grandi costruzioni teoriche d’appoggio. È caso mai esso a generare riflessioni inattese finanche nella filosofia più speculativa. A leggere i suoi testi infatti, quelli scritti di pugno del regista, si passa con molta facilità da argomentazioni di peso a considerazioni motivate da ragioni meramente commerciali. Con un tono che spesso non sai se scherza o dica sul serio. La sensibilità che mostra il nostro – che era come tutti sanno un maestro insuperato della tecnica (ma anche qui: la tecnica, la scrittura cinematografica, la “frase” della mdp non possono che mobilitarsi per un’efficacia della storia, del film come racconto – nessun autocompiacimento insomma) – si diceva  la sensibilità di Hitchcock per la macchina pubblicitaria era quella di un uomo scaltro, avveduto. Curava la propria immagine come quella del lavoro fatto e finito («Il mio personaggio preferito… sono io!»).

Il volume raccoglie interviste (compresi stralci di quella, imperdibile, con Truffaut) articoli, conferenze, aneddotica brillante (una specie di MacGuffin applicato al proprio personaggio – un regista che riusciva mirabilmente a mantenere la tensione inserendo tratti umoristici non poteva non esibirlo nelle scrittura d’appoggio al suo cinema). Come avverte il curatore Sidney Gotlieb. alcuni, non pochi, di questi testi – quelli promozionali – sono stati rivisti o addirittura concepiti da altri e sottoposti poi alla sua approvazione e firma finale (la cura è eccellente, l’edizione chiarisce ogni dettaglio sulle fonti, l’occasione, i punti controversi).

Difficile riassumere in poco spazio i temi del libro. Si parla del sistema produttivo, di questioni tecnico-stilistiche, del thriller. La sceneggiatura emerge come il cuore del film. Il che potrebbe sorprendere chi considera la scrittura cinematografica in carico solo allo sguardo della mdp e chi ritiene giustamente Hitchcock un virtuosista in materia. Ma la sceneggiatura di cui parla è un testo fatto e finito, in cui nulla deve mancare riguardo al lavoro di macchina, punto di vista, movimenti degli attori. Sui quali Hitchcock si intrattiene da par suo. Se vuole imprimere un segno – pochi più di lui – alla vita di un film e tenderebbe perciò a considerare gli attori mera funzione, quello che egli stesso chiama realismo gli impone di accettare lo star system com’è, consapevole di certi vantaggi commerciali («la star soddisfa un bisogno interiore del pubblico»). Ma le eroine vedano per favore di non crescere troppo – in altezza s’intende. Un metro e mezzo è sufficiente – le ragioni non sono solo tecniche, ma le lasciamo scoprire alle femministe curiose.

(Alfred Hitchcock, Io, Hitchcock. Il maestro del brivido si racconta, trad. di Riccardo Caccia, Donzelli, 2015, pp. 418, euro 32)