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Libri

“Perché non sono un sasso”
di Gianni Agostinelli

Un romanzo d’esordio finalista al Premio Calvino

di Chiara Gulino / 21 settembre

Come diceva Aristotele, ci si appassiona a una storia per due ragioni: perché ci commuove o perché ci spaventa l’idea di essere al posto di chi narra.

Gianni Agostinelli in Perché non sono un sasso (Del Vecchio, 2015), finalista alla XXVII edizione del Premio Calvino, dà libero sfogo a uno dei tanti ultratrentenni italiani dalla visione del mondo densa di pessimismo nella quale il sorriso disincantato sembra essere l’unico sollievo all’assurdità dell’esistenza contemporanea.

Matteo Gemmi è un perdente nato. Un metro e sessantatre centimetri di fallimenti. Non ha mai concluso nulla nella vita: «Mi hanno sempre affascinato le sconfitte. Io anche quando andavo allo stadio e la mia squadra vinceva, alla fine della partita guardavo come rientravano nel tunnel quelli che avevano perso».

Abbandonata la Facoltà di filosofia a sette esami dalla laurea, dopo aver provato un paio di lavoretti con scarsi risultati (per tre giorni la vendita di abbonamenti a una tv satellitare e poi per otto mesi quella di assicurazioni sulla vita porta a porta) e aver intrapreso corsi di formazioni senza mai portarli a termine, si ritrova a trentasette anni con un pugno di mosche in mano.

Comincia così, disilluso, «a girare in auto senza meta e curiosare nella vita altrui», ossia di coloro che hanno una casa seppur condannati per anni a pagare un mutuo, con l’agognato posto fisso, una donna e una famiglia.

Insomma quello che fino a pochi anni fa era la normalità e ora è diventato un’eccezione, a Matteo appare un miraggio, una scalata impervia verso la cima più alta e pericolosa da raggiungere.

Questa assuefazione all’inferno della precarietà sia dei sentimenti che della situazione lavorativa è oggi probabilmente una condizione universale di tutta una generazione di cui Matteo rappresenta una sorta di palingenesi in negativo. La mancanza di prospettive e di orizzonti attanagliano il nostro protagonista.

In questo nostro Paese tisico, in via di consunzione, i più sofferenti appaiono anche i più smarriti: «Mi sembrava che tutti avessero la loro vita incanalata in un binario prestabilito. Lavoro, casa, famiglia e tutto quello che ne conseguiva. Io ero una di quelle conseguenze, e li guardavo ammirato e desideravo tanto anche io avere un binario spianato sul quale far correre la mia vita banale e stupida come la loro. Invece non avevo moglie, non avevo figli, non avevo casa e non avevo un lavoro».

Matteo è un disadattato, incapace di comprendere le contraddizioni del proprio tempo. L’amore e lavoro gli appaiono «così lontane da apparire irreali», il suo è un procedere «a gomme sgonfie».

A un certo punto smette di desiderare, di ambire a mete che non gli somigliano e si mette a cercare di decifrare le storture del presente.

Osserva e annota su un quaderno di quarta elementare con in copertina la Ferrari una serie di esseri umani, smascherandone conformismo e ipocrisia, inettitudine e incapacità di relazionarsi: l’incallito giocatore di videopoker Giovannone; l’idraulico Pierluigi Manni; una donna al volante di una Tipo grigia «mora truccata pesantemente»; una giovane mamma «con il pigiama rosa, il piumino lungo fino alle ginocchia, un cappello di lana» che aspetta davanti la sua villetta lo scuolabus con la figlia; gli avventori di un bar che discutono di calcio il lunedì mattina.

In una sala da tè incontra poi un vecchio con un loden verde, apparentemente istruito e loquace, il signor Alunni, «l’unico che mi ha dato considerazione e che forse conosce quello che può provare una persona sola e solitaria in questo pezzo di mondo».

Forse perché condivide il suo stesso pessimismo, che cola, distillato come un veleno, ma talvolta anche come un vaccino, il signor Alunni riesce a suscitare in Matteo una reazione seppur scomposta e infruttuosa (ad esempio protestare contro chi il fine settimana si reca a lavare la macchina piuttosto che in una manifestazione contro il precariato) rispetto alla sua apatica immobilità da voyeur nichilista.

Lo rende consapevole della sua incapacità di guardare e di guardarsi. La sua intenzione è quella di scuotere il giovane trentenne frustato, costrettosi ore e ore a osservare la realtà altrui, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi inesorabilmente. Tenta di risvegliarlo dalla sua cattiva illusione.

La verità è che il tempo è prezioso e come dice un saggio aforisma zen «Ogni istante vale una gemma inestimabile».

La nostra noia, la nostra inquietudine dipendono da noi, non dal tempo in cui si vive. Sta a noi raddrizzare le storture della nostra esistenza. Ma questo è un sogno ingenuo, sempre destinato ad arenarsi contro le secche del quotidiano, sempre destinato a grandi delusioni.

Perché non sono un sasso è un libro dolente e appassionato, o per meglio dire accorato. Il suo lessico sgrammaticato e l’uso insistito del “che” polivalente e dell’ombelicale pronome “io” fanno pensare al balbettio di un bambino capriccioso cui nessuno presta ascolto: «Guardo il muretto per concentrarmi su cosa scrivere, ma vengo rapito da un pensiero triste. E riguarda proprio questa pietra marrone chiaro che ho davanti. Qui immobile da centinaia d’anni. Perché non sono un sasso?

Se ero un sasso non dovevo stare a cercare una risposta perché non avrei nemmeno la domanda, invece mi metto a pensarci».

(Gianni Agostinelli, Perché non sono un sasso, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 174, euro 14)

LA CRITICA - VOTO 7/10

L’autore di Perché non sono un sasso coglie l’inesorabile degrado dei costumi, dei valori e dei rapporti sociali e sa come toccare le corde dell’empatia del lettore verso un personaggio in cui purtroppo è facile rispecchiarsi.