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Cinema

“Veloce come il vento”
di Matteo Rovere

Una conferma per il buon momento del cinema italiano

di Francesco Vannutelli / 8 aprile

Adesso si può dire. Se tre indizi fanno una prova, adesso ci siamo: il cinema italiano si sta evolvendo, sta succedendo qualcosa di nuovo. In questo avvio di 2016 Perfetti sconosciuti Lo chiamavano Jeeg Robot hanno attirato l’attenzione del pubblico (più il primo) e della critica (più il secondo), dimostrando una nuova voglia di fare qualcosa di diverso nel cinema italiano. Adesso, Matteo Rovere con Veloce come il vento conferma che siamo arrivati in una fase nuova del cinema nazionale, capace di guardare dall’altra parte dell’Oceano per prendere quello che serve a fare qualcosa di diverso, di innovativo, di interessante.

Siamo in Emilia Romagna, nel mondo dell’automobilismo. Giulia De Martino è una giovane promessa neanche maggiorenne su cui il padre ha puntato tutto, nel senso letterale del termine: per iscrivere la figlia al campionato Gran Turismo si è impegnato la casa e le macchine. Se Giulia non vince perdono tutto. Solo che il padre muore di infarto dopo la prima gara, e Giulia, già abbandonata da una madre intermittente, si ritrova da sola a dover combattere nel campionato per non finire in strada con il fratellino Nico. L’aiuto arriva inaspettato dal passato, nella forma ciancicata e macilenta del fratello maggiore Loris, tossicodipendente con una storia alle spalle da campione del volante.

Sono tanti i meriti di Veloce come il vento, il terzo film di Matteo Rovere che, dopo due interni romani borghesi (Un gioco da ragazze Gli sfiorati), si sposta nella provincia meccanica per il suo lavoro migliore, fino a questo punto. Guardando al cinema statunitense soprattutto, come già aveva fatto Daniele Vicari con Velocità massima nel 2000, Rovere si infila con sicurezza all’interno del filone del cinema di genere sportivo, non solo automobilistico. È chiaro che per ambiente e temi vengono subito in mente film come Giorni di tuono di Tony Scott, o Rush, per dire un titolo più recente, ma basta fermarsi un attimo per vedere tutta la mitologia sportiva così come l’ha raccontata Hollywood più volte, quella del perdente che trova il riscatto nella fatica dello sport, quella della retorica (positiva) della seconda possibilità, che mette insieme il Wrestler di Aronofsky e, soprattutto, The Fighter di David O. Russell.

Rovere ha il merito, condiviso con i momenti migliori del nuovo cinema italiano, di essere consapevole dei propri limiti. Guarda al cinema statunitense, e va bene, ma non prova a fare Fast and Furious, così come Mainetti non ha provato a fare Batman con Jeeg Robot. L’ispirazione americana serve solo come punto di partenza, come mondo di riferimento a cui guardare per prender un modello e adattarlo alla identità culturale italiana. È un’operazione che sembra semplice solo a dirsi.

Un film come Veloce come il vento, proprio per questa capacità di localizzare un modello straniero, di ridurre il modello blockbuster a piccolo cinema d’idee più che di effetti, non può che sembrare pronto per essere venduto fuori dall’Italia. Come abbiamo detto in apertura, conferma il buon momento del cinema italiano, dopo Non essere cattivoPerfetti sconosciuti Lo chiamavano Jeeg Robot. In generale, mettendoci dentro anche un film meno riuscito come La felicità è un sistema complesso, è evidente che ci sia la voglia, da parte di una serie di registi, di dimostrare che in Italia si può ancora fare un cinema interessante e capace di andare al di là dei confini ristretti della commedia (o del dramma d’autore) e del territorio nazionale. Sono tutti film che possono giustamente ambire a una distribuzione internazionale, a essere visti e apprezzati anche all’estero.

La forza inattesa di Veloce come il vento arriva da Stefano Accorsi, senza dubbio arrivato con Loris alla migliore interpretazione della sua carriera, senza dubbio tornato a quei livelli d’attore che ne avevano fatto il punto di riferimento del cinema italiano tra la fine degli anni Novanta e i Duemila, quando tutto quello di meritevole che veniva realizzato qui in Italia aveva Accorsi tra i protagonisti. Si era un po’ perso, Stefano, e il flop della serie tv 1992 dello scorso anno, prodotta partendo da una sua idea, non lo aveva certo aiutato. Con Rovere ha avuto il coraggio di indossare i panni di un tossico insopportabile, debole e disgustoso, che forse non aspetta nient’altro che un’occasione di riscatto. Insieme a lui, l’esordiente Matilda De Angelis fa capire che ci sarà tempo e modo per parlare ancora di lei nei prossimi anni.

Ovvio, comunque, che non siamo di fronte a un film perfetto. Ci sono dei difetti, nella gestione del contesto e della protagonista Giulia, che finisce per essere schiacciata dal fratello Accorsi troppo ingombrante. C’è un tentativo solo in parte riuscito di smarcarsi dalla retorica (questa volta quella negativa) hollywoodiana che finisce per portare ad altra retorica. Quello che conta, però, è come sempre la somma delle parti. E Veloce come il vento è una bella somma.

 

(Veloce come il vento, di Matteo Rovere, 2016, drammatico, 119’)

 

LA CRITICA - VOTO 7/10

Veloce come il vento conferma l’ottimo momento di salute del cinema italiano e riporta Stefano Accorsi quindici anni indietro nel tempo con quella che è senza dubbio la migliore interpretazione della sua carriera.