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Cinema

“La pazza gioia”
di Paolo Virzì

Due donne in fuga e in cerca della felicità

di Francesco Vannutelli / 17 maggio

Sono passati tre anni da Il capitale umano, uno dei migliori prodotti del cinema italiano degli ultimi tempi, e Paolo Virzì torna nelle sale, passando per la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, con La pazza gioia, film che lo riporto dalla Lombardia gelata alla Toscana che gli è casa e più vicino al suo cinema classico, tutto fatto di personaggi e dialoghi. Dopo la trama complessa del thriller finanziario, il punto di forza, questa volta, sono le due protagoniste: Micaela Ramazzotti e, soprattutto, Valeria Bruni Tedeschi.

A Villa Biondi, un istituto di assistenza psichiatrica per donne in difficoltà, si aggira Beatrice Morandini Valdirana (Bruni Tedeschi), una logorroica accentratrice che controlla ogni aspetto della vita della comunità, dalla cura del giardino alle escursioni fuori dal centro. Solo che Beatrice è a sua volta una paziente, con un paio di condanne penali alle spalle. Nessuno sa esattamente dove finiscano le bugie e inizi la verità, quando racconta di conoscere personalmente Berlusconi («Il presidente», sempre e comunque) o che la sua famiglia di fatto avrebbe donato Villa Biondi alla carità, ma il suo naturale portamento aristocratico la pone al di fuori del gruppo delle pazienti. Quando arriva Donatella (Ramazzotti), una donna magra, piena di tatuaggi e con le cicatrici sui polsi, tra le due si crea un legame immediato e istintivo che le rende complici in una fuga inizialmente non voluta e compagne in un lungo viaggio alla ricerca di una felicità impossibile.

Rimasto orfano di Francesco Bruni e Francesco Piccolo, i suoi storici collaboratori, Paolo Virzì ha chiamato per scrivere La pazza gioia la regista Francesca Archibugi, amica sin dai tempi del Centro Sperimentale, che ha dato un contributo importante nel rendere credibili queste due donne alla deriva. La fuga di Beatrice e Donatella strizza senza dubbio l’occhio a Thelma & Louis e a tutto quel cinema di fughe al femminile come momenti fondamentali di formazione e autoconsapevolezza (ci mettiamo in mezzo anche Pane e tulipani), andando incontro a tutti gli stereotipi del caso senza nessuna paura di sfidare il già visto.

È, soprattutto, un racconto di umanità fragile quello che viene fuori, che non pretende di essere originale o realistico. Senza essere intimidatorio nei confronti dello spettatore sul piano emotivo, La pazza gioia riesce a coinvolgere nelle avventure delle sue matte disperate. Solo nel sottofinale, con il lungo racconto in flashback di Donatella/Ramazzoti, da cui affiora la stanchezza dei due personaggi e il sotterraneo desiderio di morte che attraversa tutto il film, il ricatto empatico si fa più forte ed evidente. È difficile, del resto, riuscire a immedesimarsi in personaggi così oltre il limite della normalità, così anche vicine a un certo livello di lecita mal sopportazione, tra l’arroganza infinita di Valeria Bruni Tedeschi e il mutismo depresso di Micaela Ramazzati. Il legame, però, lo crea l’affetto istintivo che queste due sbandate riescono a consigliare allo spettatore.

In una stagione in cui si sono – giustamente – sottolineati i meriti di film come Lo chiamavano Jeeg Robot o Veloce come il vento, che hanno cercato di portare nuovi linguaggi nel cinema italiano, La pazza gioia sottolinea quanto sia comunque importante e utile non perdere il collegamento con i modelli del passato. Sono anni che si ripete in maniera anche ovvia che Paolo Virzì è l’unico autentico erede degli anni d’oro del cinema italiano e in quest’epoca di rifiuto per tutto ciò che è passato può finire per diventare un marchio di infamia, anziché una medaglia al merito. Quello che è certo è che Virzì è uno dei pochi autori capaci di guardare con il suo cinema in tutte le direzioni, alla commedia, al dramma, al ritratto intimo, alla riflessione politica.

Concentrato, come sempre, sui personaggi della sua storia, Virzì non tralascia comunque la dimensione sociale. Il tema della malattia mentale lega con un filo ideale lungo più di vent’anni il copione della Pazza gioia a Il grande cocomero di Francesca Archibugi, soprattutto per quello che riguarda l’idealismo dei medici che assistono i malati e la lezione di Marco Lombardo Radice. Gli ospedali giudiziari psichiatrici (OPG) che si vedono nel film sono stati chiusi solo di recente con una legge discussa per anni. A oggi, però, come ricorda una scritta alla fine del film, solo la metà dei pazienti ha trovato una nuova sistemazione.

(La pazza gioia, di Paolo Virzì, 2016, commedia, 118’)

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Dopo Il capitale umano, Paolo Virzì torna a un cinema più vicino al suo classico. Riesce a dosare bene i sentimenti e si affida completamente alle sue protagoniste.