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L’Eden in malora

Appunti sul romanzo “Il giro del miele” di Sandro Campani

di Demetrio Paolin / 8 marzo

Il giro del miele di Sandro Campani (Einaudi, 2017) è un romanzo che a una prima lettura sembrerà un testo semplice, fors’anche un po’ naïf per i contenuti e per la lingua. In realtà il testo di Campani deve essere ruminato, lentamente e con attenzione, per comprendere come si abbia a che fare con una storia molto più complessa e stratificata. Questi pochi appunti redatti in corso di rilettura del testo, cercano proprio di fare i conti con il livello più nascosto del romanzo.

Veniamo brevemente alla trama. Il romanzo si svolge in un paese dell’Appennino modenese, nei dintorni di Sassuolo, in una notte in cui Davide e Giampiero si trovano a casa di quest’ultimo per una lunga chiacchierata, dopo anni di silenzi reciproci. Giampiero è un falegname e per anni ha lavorato con il padre di Davide, rilevandone alla fine l’attività. Davide ha fatto diversi lavori, l’autista dello scuolabus, il buttafuori e il commerciante di miele di api. La vita di Davide è divisa in due segmenti, quando viveva con Silvia, la donna che ha amato di un amore tenero e ossessivo, e dopo la separazione da lei. Il romanzo rappresenta la versione di Davide, la sua parte di verità rispetto alla storia con Silvia, di cui noi conosciamo pensieri e azioni per come ce li racconta Giampiero, che con la donna è rimasto in contatto.

Se la trama è tutto sommato semplice, il modo in cui Campani compone Il giro del miele, come lo racconta e le immagini che veicola sono tutt’altro che scontate. Il romanzo ha una sorta di andamento dialogico. Due uomini davanti una bottiglia di grappa e il caldo del camino. Il racconto ha una valenza quasi gnomica, vuole essere ed è un racconto sapienziale. I due uomini non raccontano solo una storia, ma caricano ogni momento, ogni episodio di un valore maggiore. La storia che esce da queste pagine è un racconto nuovo e rivisitato della cacciata dal paradiso terreste.

Davide e Silvia, innamorati e felici, di colpo commettono un peccato e questo peccato li porta lontani dall’Eden. Campani, in questo caso, è bravo a comporre con un parallelismo molto interessante nella storia della caduta dei due protagonisti. Una sera Silvia, ancora giovane, è a Bologna; è appena venuta via da una festa universitaria, è stonata, stanca, disperata. Ha perduto ogni ragione di stare in quei luoghi e in quel momento, proprio nel momento della massima disperazione e solitudine, incontra Davide che, di ritorno da un giro di consegna di miele, la carica sul suo camioncino e letteralmente la salva. Se il tono del romanzo è legato a un realismo preciso e netto, le pagine della festa bolognese sono invece la riproduzione di un incubo, proprio a sancire anche stilisticamente una crasi tra un tempo e l’altro.

La vita successiva è felice, i due si sposano, mettono su casa e sono l’invidia di tutti. La vita di coppia si disgrega quando Davide, in crisi con la propria attività di apicultore, decide di seguire le sirene di Luciano, un amico d’infanzia, e di andare a fare il buttafuori in una discoteca di Sassuolo, l’Ossian. Quindi se il movimento di Silvia era stato da fuori a dentro la comunità; quello di Davide è da dentro a fuori. Il lento sprofondare di Davide sarà, anche in questo caso, sancito da una scena altrettanto allucinata e violenta fuori dalla discoteca. È il momento della caduta questo, il momento in cui Davie esce dall’Eden, mangia la mela che Silvia gli porge. È una caduta irrimediabile a cui niente e nessuno può porre rimedio.

Se, però, questo fosse il solo nucleo narrativo della storia, allora Campani avrebbe semplicemente rivisto in chiave moderna l’antropologia e la sociologia che stanno alla base dei Malavoglia (di cui credo che Campani sia comunque un fervido lettore). In realtà il piccolo mondo del paese sulle montagne di Il giro del miele non è per nulla edenico e salvo. A dircelo è Giampiero che, per usare una metafora verghiana, non si è mai allontanato dal suo scoglio. Giampiero ha perduto l’uso di una mano proprio nell’incendio della falegnameria e ha assistito lentamente alla perdita di senso del suo lavoro. L’Eden vagheggiato da Davide e Silvia non è poi così reale: il male, il peccato, la colpa sono entrati anche in quel luogo, lo hanno corrotto. Simbolo di questa corruzione, silente ma duratura, è la lince che molti abitanti hanno intravisto, che anche Silvia e Davide hanno incontrato sul proprio cammino, ma che nessuno riesce a catturare. Proprio come il serpente edenico, la lince dimostra che ogni tentativo di essere felici è una illusione, che la nostra vita sarà una fatica e uno sforzo che alla fine non condurrà a nulla, come la lunga chiacchierata tra i due amici; il cui fine vero e ultimo è una sorta di rassegnazione per le cose che vanno così come devono andare, senza una ragione di salvezza. O meglio, un’idea di salvezza balugina in queste pagine, ma è demandata a qualcosa di misterioso e assente e lontano come il Dio dell’Antico Testamento che salva e consola nei tempi e nei modi che all’uomo non sono dati di sapere.

Interessante è come Campani ottenga questa dimensione sacrale e biblica, senza mai farci pienamente riferimento. I modi, a mio avviso, sono due. Il primo è legato alla scelta dell’io narrante. A parlare in prima persona è Giampiero, ma la sua è una prima persona di secondo grado, per alcuni ordini di motivi. Il primo sono i dialoghi, in cui si inseriscono flashback e discorsi riportati rispetto agli assenti (in particolar modo quelli di Silvia; una notazione interessante è come questo sia un libro assolutamente maschile, le donne se ci sono, sono dei fantasmi). Il secondo è il personaggio di Davide, è lui il motore dell’azione e il vero io narrante nascosto, e lui che dona al romanzo questo andamento sapienziale, perché Davide è convinto che la sua storia abbia un valore universale. Questo diverso modo di trattare l’io narrante, mi ha ricordato certi libri di Conrad – Cuore di Tenebra e Lord Jim –, come se Giampiero fosse per Campani il suo Marlow a cui affidare la sua visione del mondo, la sua razionalità, per sostenere lo sguardo disincantato sul male dei propri Kurtz o Lord Jim. Infatti Davide ha consapevolezza e conoscenza dell’orrore del nostro tempo, perché come i personaggi di Conrad, lo ha vissuto su di sé e come per un maleficio vuole passare la propria conoscenza del male agli altri con la parola.

Il secondo modo per cui sentiamo, durante la lettura, l’andamento gnomico sapienziale nel romanzo di Campani è la lingua. La scelta linguistica del romanzo è molto connotata: un registro basso, colloquiale, a tratti dialettale, in cui si fa un grande uso del discorso indiretto libero e dello straniamento (alcune volte Giampiero parla usando il punto di vista di Silvia); ciò dimostra come appunto la linea di continuità scelta da Campani parta da Verga e venga mediata dal Fenoglio di La malora, che è la vera pietra di paragone per Il giro del miele.

La lingua di Il giro del miele appunto è una lingua a cui siamo disabituati: per alcuni le scelte di Campani possono sembrare scelte di retrovia rispetto all’evoluzione della lingua letteraria nella scena narrativa italiana, mentre secondo me c’è in questa tensione verbale qualcosa di diverso e legato proprio al tema del libro, ovvero la perdita del paradiso perduto (altro tema fenogliano): ovvero la nostalgia. I personaggi del romanzo hanno nostalgia di qualcosa che hanno intravisto per brevi attimi e che hanno assaporato e hanno perduto, e di tutto quello che hanno vissuto non gli rimane che un ricordo sbiadito e una lingua che può dirlo. E infine il compito di uno scrittore altro non è che questo: dire la propria storia con le parole più acconce e Campani lo ha fatto nel migliore dei modi.

 

(Sandro Campani, Il giro del miele, Einaudi, 2017, pp. 242, euro 19,50)