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Musica

Nelle camere dei Balmorhea

Clear Language, il ritorno della band di Austin

di Luigi Ippoliti / 16 novembre

Sono passati cinque anni da Stranger, e cinque anni oggi sono un’enormità che in pochi possono permettersi. Nel caso dei Balmorhea, con quest’ultimo lavoro, Clear Language, sono serviti per un ritorno alle origini. Stranger, infatti, rappresentava il cambiamento. Nessun album della band americana era uscito così tanto dai confini della loro musica da camera. Sembrava esserci un avvicinamento più che netto verso ciò che sta dall’altra parte. Un passo più in là verso zone sconosciute. All Is Wild, All Is Silent, Costellation, ma soprattutto Rivers Arms, con la sua musica classica minimale mischiata al folk, diventato quasi un cult degli anni ’00, erano gioelli iper minimalisti votati alla dimensione ultra individuale.

Clear Language è, invece, un passo in qua. Non qualitativo. È un ritorno a guardare le cose da un punto di vista che conosciamo. È possibile che i Balmorhea abbiano pensato di provare a vedere se sarebbero riusciti a essere ancora così belli con addosso abiti diversi dai soliti. Cercando di somigliare meno a sé stessi, hanno tirato fuori Stranger, certamente un album non pessimo, ma al di sotto dei suoi predecessori. Meno immaginifico, aveva tolto gran parte di quell’aura di magia che accompagna i sei di Austin. Quindi un ritorno a una cifra stilistica ben collaudata, a canoni estetici ampiamente battuti, e i Balmorhea sono di nuovo i Balmorhea.

Per quanto possa suonare come un limite, i Balmorhea sono un gruppo che può essere solo questo. Sono incanalati in un genere ben definito e chiaro e all’interno di questo devono muoversi. Il fatto, in definitiva, è che questo lo fanno molto bene.
I Balmorhea non sono quelli che devono stravolgere gli esiti della musica contemporanea o che devono trascinarla verso il futuro. I Balmorhea, nel proprio territorio, sono grandi in tutti i loro limiti.

Clear Language è intriso di classica minimale (“Clear Language”, “Waiting Itself”), spunti jazz, echi qua e là di Sigur Rós. C’è del post rock depressurizzato, l’idea di collaborazioni tra This Will Destroy You e Eluvium (“Dreamt”, “Slow Store”), ci sono dei Mogwai compressi (“Ecco”, “Behind the World”), c’è quella classica calma che corre lungo tutte le canzoni alla Album Leaf di In a Safe Place, quella calma che nel post-rock di matrice americana (Explosions in the Sky o, appunto, This Will Destroy You), sfocia in climax pieni di distorsioni, ma che qui invece viene fatta confluire in silenzi assordanti. Ci sono i Balmorhea che, con i loro codici, continuano ad essere un ascolto necessario per precipitare verso gli abissi del proprio privato.

(Clear Language, Balmorhea, post-classical)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Serve un passo indietro ai Balmorhea per tornare a splendere come ai tempi di Rivers Arms. Dopo cinque anni da Stranger, Clear Language ci riporta un gruppo in perfetta salute.