Libri
L’indelicatezza della generalizzazione
Stefano Bonazzi, “L’abbandonatrice”
di Sara Giudice / 8 febbraio
La trama di L’abbandonatrice di Stefano Bonazzi (Fernandel, 2017) si svolge principalmente intorno al primo dei protagonisti, Davide, uno studente universitario omosessuale che ha avuto un irrisolto coming out in famiglia. Bonazzi ci dice che i suoi genitori hanno scoperto la sua natura sessuale attraverso le fotografie che Davide scattava a un suo compagno di scuola. Sta al lettore capire come la visione di tali immagini sia in grado di trasformarsi in una rivelazione tanto significativa. Il risultato è l’allontanamento del ragazzo dalla sua casa e il trasferimento in un nuovo appartamento. Davide si trasforma così in un nella sua città, Bologna, uno dei tanti pretesti per arricchire la narrazione di uno stile di scrittura barocco e stucchevole.
Dato che uno dei focus del romanzo è l’omosessualità, ci si aspetta che l’argomento sia trattato o con accuratezza oppure nella maniera opposta, ignorandola per normalizzarla. Nelle prime pagine sembra che la seconda opzione sia quella scelta dall’autore, ma più si avanza nella lettura più la questione si fa confusa: Davide prova un’evidente attrazione fisica per Sofia, si parla di rapporti consensuali ed eterosessuali con persone che in principio erano state definite omo, ma non si fa nemmeno accenno a etero-curiosità o bisessualità.
Gli adulti non sono quasi mai presenti, se non per il breve scambio fra Davide e i suoi genitori, finalizzato non alla messa in scena di un conflitto funzionale, ma solo a dare un’opportunità al lettore per demonizzare dei genitori che non hanno rifiutato la natura sessuale del loro figlio e sono solo colpevoli di non essere in grado di affrontare una situazione che hanno imparato a evitare. Nel caso di Sofia, la madre ha un crollo mentale dopo l’abbandono da parte del marito e, in un capitolo surreale, due operai portano via tutti i mobili di casa. Sofia a quel punto si fa carico dei suoi fratelli, dall’età imprecisata. I rapporti fra giovani e adulti esistono quindi solo nella dimensione di uno strano conflitto generazionale che non approda però a nulla. Persino quando Sofia diventa madre, il rapporto col figlio, Diamante, non c’è: Sofia si toglie la vita all’inizio del romanzo e, quando Diamante entra in scena, la relazione con lei è semplificata tramite una giustificazione generica: il fatto che la donna non è mai stata una buona madre. Diamante non conosce il padre, odia la madre tanto da non piangerne il suicidio. In fin dei conti, una volta ritornati a Bologna da Londra, dove Sofia e Diamante vivevano, nessuno si cura più del fatto che una persona cara a tutti i protagonisti sia morta e nessuno si cura nemmeno delle pratiche legali che guidano l’affido di un minorenne a qualcuno che, come Davide, non ha nessun legame diretto con lui.
La realtà è che nessuno si cura neanche del fatto che il compagno di una vita di Davide, Oscar, dopo un esordio musicale fallito da giovanissimo, sia caduto nuovamente nel vortice della depressione e infine in quello della droga. Nella seconda parte di L’abbandonatrice Oscar è un tossicodipendente che vive “di alti e bassi”. Il narratore descrive in pochissime battute la sua nuova vita, ma ne parla anche come un uomo fisicamente decadente e mentalmente instabile, che ha evidente bisogno di aiuto. La padrona di casa è la sola a prendere in considerazione la riabilitazione, ma lo fa per ghettizzare, non per recuperare, Oscar.
L’abbandonatrice è quindi un romanzo che avanza per frasi fatte e fintamente poetiche, dialoghi e personaggi irrealistici. Ha alla base un potenziale che non può essere negato, che viene annullato dal fatto che Bonazzi non coglie l’occasione di operare una selezione degli argomenti su cui sensibilizzare il lettore per poterli gestire al meglio. Il risultato è un prodotto che somiglia molto di più a una bozza immatura che a un romanzo fatto e finito.
Stefano Bonazzi, “L’abbandonatrice” , Fernandel, 2017, 208 pp., € 15.00
LA CRITICA - VOTO 4/10
Un romanzo che si perde nel bicchiere d’acqua della sua voglia di sensibilizzare il lettore, che però subisce solo l’imposizione di una lunga serie di banalità e luoghi comuni.