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Pastorale letteraria

In morte di Philip Roth

di Alessio Belli / 24 maggio

Da The New York Times del 23 maggio 2018: «Philip Roth, the prolific, protean, and often blackly comic novelist who was a pre-eminent figure in 20th-century literature, died on Tuesday night at a hospital in Manhattan. He was 85. The cause was congestive heart failure, said the writer Judith Thurman, a close friend».

Saputa la notizia ho ricordato istintivamente il finale di Il teatro di Sabbath: «Non riusciva a morire, cazzo! Come faceva a rinunciare? Ad andarsene? Tutto ciò che odiava era qui».

Tutto ciò che odiava era qui. La pietra tombale definitiva sulla depravata vita di quel Mickey Sabbath che tra burattini e oscenità, amanti e fantasmi, ha fatto della propria figura un vero e proprio Inno all’Inumanità, arrivando ad avere come unico carburante odio e livore. C’è un po’ – spesso parecchio – di Philip Roth in ogni suo protagonista e molto spesso quei pensieri sono gli stessi dell’autore. Il Roth post-ritiro però era un individuo estremamente in pace con se stesso. Allontanate – per quanto possibile – nevrosi e tormenti di una vita capaci di creare le pagine più alte della letteratura contemporanea, l’ottantenne scrittore ebreo dopo il ritiro del 2012 passava le giornate leggendo manuali sull’uso dell’iPhone, chiacchierando con Scorsese – chiedendogli come diavolo facesse a reputare Scarpette rosse un capolavoro – e con altri colleghi come DeLillo, ridendo con velato distacco davanti alle celebrazioni a lui dedicate: per festeggiare gli ottant’anni a 35 dollari si poteva prenotare un biglietto per il tour “La Newark di Philip Roth”…

Credo sia più giusto dire: Tutto ciò che amava era qui. Dal racconto Goodbye Columbus del 1959 a Nemesi del 2010: cinquantuno anni in cui Philip Roth ha reso sottilissima la linea tra vita e letteratura condividendo con il mondo i cardini della sua missione. Sesso, fede, perdita e morte, riflessioni sulla natura umana, a volte miscelati o in disparte per fare spazio ad altre tematiche. Tra questi, a spiccare come un faro inarrivabile, c’è un talento sconfinato di narratore.

Legato visceralmente al mondo ebraico e alla storia americana, Roth riesce nell’impresa di essere universale e rendere i suoi ragionamenti universali, coinvolgendo i lettori di tutto il mondo. La capacità di creare torrenti inarrestabili di parole e poi colpire con una stilettata mortale con un’unica frase, parlare di nefandezze e scurrilità e sembrare innocuo, di storia e morte, inventarsi le forme e i punti di vista più originali per arrivare al cuore delle cose. La linea è sottile: il celebre Portnoy sul lettino dello psicanalista intento a sdoganare manie sessuali nella letteratura non è lontano dall’onestà con cui in L’animale morente il professor Kepesh (presente anche in Il professore di desiderio) ammette: «Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza», con conseguente infatuazione per Consuela Castillo, sfociando in una delle più belle descrizioni di sempre del seno femminile.

Sì, la questione femminile: senza il gentil sesso Roth avrebbe scritto la metà e avrebbe vissuto sicuramente una vita molto meno turbolenta. La prima moglie Margaret Martinson muore nel ’68, cinque anni dopo il loro divorzio. In seguito a una lunga convivenza sposa Claire Bloom. Secondo divorzio e il libro di memorie della Bloom chiamato Leaving a Doll’s House, dove il nostro non ne esce proprio benissimo. C’è chi lo definiva un misogino: alla consegna del Man Booker Prize una delle giurate per protesta arrivò a dimettersi.

Nelle opere di Philip Roth la trama non conta, esigua o complessa che sia: è il modo di raccontare a fare la differenza. Come in Pastorale americana (forse il capolavoro assoluto), con cui vince il premio Pulitzer 1998, rubato proprio all’amico DeLillo. Impossibile rimanere indifferenti davanti alla biografia immaginaria di Seymour Levov detto lo Svedese. Sì, biografia immaginaria: Nathan Zuckerman – celebre alter-ego di Roth – a un ritrovo di ex-alunni incontra il fratello dello Svedese. Il sogno è finito: Jerry Levov porta con sé brutte notizie riguardo allo Svedese e il sogno di Zuckerman si infrange in maniera così tragica da sentire il bisogno di riscrivere la giusta storia del proprio mito d’infanzia. Immenso. Il grande romanzo americano di Roth è così: parte dal privato, dal piccolo e successivamente si espande fino all’universale.

Le varie fasi narrative potrebbero essere queste: il filone ebraico (Operazione Shylock, Lo scrittore fantasma, L’oro di Praga, Il complotto contro l’America), quello americano (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, Il grande romanzo americano) con Zuckerman spesso a fare da trait d’union e quello umano (da Lamento di Portnoy, passando per Sabbath ed Everyman), spesso intrecciato sulle vicende delle donne sopracitate… senza dimenticare il baseball! Roth alla fine della parabola letteraria torna sempre di più al passato, all’origine. Dalla guerra di Corea del ’51 di Indignazione (2008) alla Newark equatoriale dell’estate 1944 di Nemesi (2010). La tragica e struggente vicenda dell’atleta ed educatore di Bucky Cantor (con non pochi echi dello Svedese) e la falciante epidemia di polio è un cupo e sentito commiato: il cerchio è chiuso.

Di Roth si percepisce fin da subito l’esigenza vitale dello scrivere. Ha dichiarato di aver iniziato per vedere se ne era capace e si è paragonato a un vecchio pugile che raggiunge i successi sul ring facendo il massimo con i pochi mezzi a disposizione.

Philip Roth ha trovato la massima realizzazione solo nel narrare. Nel confidarsi alla pagina bianca e al lettore, nell’ammettere con ironia e sincerità vizi e ossessioni, paure e le due o tre passioni capaci di renderti ancora umano. E vivo. Nell’abbattere con ironia le ipocrisie e le convenzioni sociali. C’è un’umanità sconfinata nelle opere di Roth perché in ogni lavoro c’è un pezzo di se stesso, raccontato in maniera che sia anche nostro.

Senza dimenticare il potere guaritore dello scrivere: si parla di “lamento” di Portnoy, non di terapia o confessione; l’uomo non è una traccia o un segno su questa terra: è una macchia. La tragicità mischiata a un’inesauribile e devastante vena dissacrante capace di farci ridere un po’ sopra le perdite e le delusioni.

Questo non cancella il rimpianto per la sua morte: avrei voluto leggere – dopo le pagine dedicate a Nixon e Clinton e alla politica americana di Ho sposato un comunista – il parere di Nathan Zuckerman su Trump e l’attuale politica americana. Avrei voluto sapere i pensieri di un quieto vecchietto oramai in pensione che sotto sotto del Nobel se ne è sempre fregato. Guardo ciò che ci ha lasciato: tutto ciò che ama è qui. Sta a noi leggerlo.