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Libri

La casa è sotto la superficie della Terra

Matteo Meschiari, “Disabitare. Antropologie dello spazio domestico”

di Elisa Carrara / 17 settembre

Occorre un certo coraggio per entrare in casa d’altri. Permesso? Disturbo? Ci si toglie il cappello, si indugia sullo zerbino, cercando non tanto di pulirsi le scarpe, ma di simularne il gesto, nel tentativo di apparire innocenti. Si resta sulla soglia con l’aria colpevole di chi sa che sta per violare l’anima altrui. E una volta invitati a entrare ogni cosa appare diversa: non siamo più estranei, ma ospiti. O quantomeno intrusi educati. Cercheremo avidi le tracce dell’accoglienza, illudendoci di trovarle nei cenni rassicuranti di chi ci tende la mano, nei soprammobili sfacciatamente esposti, nei piatti non lavati rimasti dalla cena.

Ma ciò che troveremo sarà ben diverso dalle aspettative: le pareti ci ricorderanno che abbiamo abbandonato la nostra vita per insinuarci in luoghi stranieri, ostili, capaci, talvolta, di soffocare le nostre idee e il nostro corpo. Cammineremo sui pavimenti appena puliti, guarderemo fuori dalle finestre e penseremo di aver trovato il nostro posto, di essere finalmente al sicuro. Ma le abitazioni sono creature vulnerabili e mutevoli, esattamente come gli uomini.
«Le case sono in noi come noi siamo in loro» ci ricorda Matteo Meschiari nel suo Disabitare. Antropologie dello spazio domestico (Meltemi, 2018): e quando rivelano la loro fragilità non possiamo far altro che chiederci cosa significhi abitarle. Quanto la dimora sia capace di costruire la nostra stessa percezione del mondo è un’idea tanto radicata da aver contagiato gran parte del pensiero antropologico. Oltrepassando gli insegnamenti di Claude Lévi-Strauss, Meschiari si sofferma sulla relazione tra casa e ambiente nella contemporaneità. Il viaggio comincia tra le strade di New Orleans, a pochi giorni dall’uragano Katrina, per poi avventurarsi nelle esperienze abitative più antiche e in quelle più estreme, laddove il confine tra intimità ed esteriorità si fa più tenue.

C’è stato un tempo in cui la casa non era il sintomo ossessivo del desiderio di controllo sull’ambiente: caverne e capanne, infatti, condividevano con il paesaggio molto più di quanto facciano i nostri appartamenti. La rimozione della natura come luogo originario dell’abitare è un processo lento che coinvolge anche il linguaggio: dare un nome alle cose è un’azione talmente potente da riuscire a creare o ridefinire i nostri stessi spazi. E le nostre identità. Catalogare le forme della natura ci ha paradossalmente allontanato da essa. L’ambiente battezzato, controllato e indebolito si è trasformato in un’estensione delle nostra casa, ossia di quel posto in cui cerchiamo accoglienza e protezione, da un altrove che noi stessi abbiamo creato. Come spiega Tim Ingold, in uno dei tre saggi che concludono il libro, viviamo immersi in una rappresentazione diffratta della natura: ci aggiriamo tranquilli nelle nostre case curando piante contenute in vasi, spolverando sculture a forma di animali, chiudendo finestre che sono solo schermi attraverso cui guardare il fuori alla giusta distanza. Circondati da potenze ctonie acquietate e controllate, non sopportiamo l’idea che qualcosa dall’esterno possa turbare la nostra vita: allontaniamo animali che non sono stati addomesticati; viviamo nel terrore che un incendio distrugga la nostra abitazione e che un’inondazione porti via tutto ciò che possediamo.

Contenere le forze della natura, conclude Ingold, significa dimenticare che il mondo non è un palcoscenico: noi non viviamo sulla superficie della Terra, ma dentro di essa.

 

 

(Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, 168 pp., € 14.00)

LA CRITICA - VOTO 8/10

C’è stato un tempo in cui la casa non era il sintomo ossessivo del desiderio di controllo sull’ambiente: caverne e capanne, infatti, condividevano con il paesaggio molto più di quanto facciano i nostri appartamenti.