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Libri

Tra romanzo e personal essay, sulle tracce della giovinezza

“L’idiota”, romanzo d’esordio di Elif Batuman

di Teodora Dominici / 17 gennaio

È difficile rendere onore a questo libro, così come è difficile prendere sul serio chi non l’ha apprezzato. E questo non perché non sia costruttivo e affascinante prendere in esame punti di vista differenti dal proprio, ma perché L’idiota di Elif Batuman (Einaudi, 2018), primo romanzo della scrittrice americana di origine turca, è molto più di un caso, è il libro, splendidamente scritto, in cui chiunque frequenti a un livello profondo il mondo delle lettere – per motivi di studio, professionali o di evasione presa nell’accezione più alta del termine – aspettava da tempo di imbattersi, come in un’isola felice dopo un lungo e alterno navigare.

Una prosa elegante, cesellata e mai incline al superfluo, attraverso cui traspare l’intelligenza dell’autrice, racconta in prima persona la storia di Selin, alter ego di Batuman, come lei di origine turca, alle prese con il primo anno di università ad Harvard. È il 1995. Selin si aggira tra coinquiline strampalate, corsi di linguistica, letteratura russa e arte tenuti da professori più simili a mitologiche chimere che a insegnanti istituzionali, e compagni di studi dalle variegate esitenze.

Ragazza colta, osservatrice e perennemente pronta a domandarsi il perché delle cose, si approccia con il primo nascere delle e-mail e del World Wild Web: una forma nuova di comunicare, l’e-mail, che le permetterà di intessere una tormentata relazione epistolare con Ivan, brillante studente di matematica di origini ungheresi per il quale Selin prova un trasporto che trascende l’infatuazione, giungendo a toccare punti profondi e sommersi in libera associazione, dal significato dell’esistenza, a quello del libero arbitrio, sino a un discorso metalinguistico che investe la validità del linguaggio e la sua declinazione nelle differenti lingue esistenti.

La riflessione sulla lingua e sulle parole, su alcuni lemmi e sulla loro origine culturale, è una delle cose più sorprendenti del libro: un’attenzione costante ai fondamenti delle relazioni umane, della prima relazione su tutte, quella che collega una cosa al modo in cui si cerca di descriverla, attraverso il linguaggio appunto. Elif Batuman per bocca di Selin cita nomi cari e luoghi cari, evoca la semiotica, i formalisti russi, i dipartimenti polverosi e sconclusionati, mette sulla pagina lo studio quello vero, uno studio che tende a scardinare la contingenza e diventa interrogazione costante, rovello interiore, caldo nodo di affinità oppure di scontro.

Tutto quel che Selin vede e sente sembra surreale: il corso di arte e design “mondi costruiti” per esempio, in cui l’esame consiste nel portare un progetto che rappresenti un sistema autosufficiente – lei risolverà la questione scrivendo un racconto, ça va sans dire – oppure il corso di lingua russa, nel quale per esercitarsi gli studenti leggono e mettono in scena un testo didattico creato ad hoc, dal titolo Nina in Siberia, che per assurdo è una sorta di specchio spaventosamente preciso di ciò che sta accadendo a Selin nella vita vera.

Lei si muove ed esplora, continuando a domandarsi qualsiasi cosa. Ci sono i Nirvana e le metropolitane, il New Jersey ma anche Parigi, camere condivise con ragazze particolarissime, che smontano e costruiscono radio oppure passano ore a resocontare dialoghi col proprio analista, c’è la collettività e c’è molta solitudine, ci sono chili di letture di saggi, giornali, studi critici e testi di matematica, e sopra a tutto c’è la letteratura russa, grande passione dell’autrice. Ci sono inverni e primavere, scambi di battute che si avvicinano al senso senza mai raggiungerlo, e tutto un universo di madri, zie, sorelle che telefonano da cabine telefoniche poste in punti imprecisati di una geografia che non è contorno, ma vero e proprio contesto socioculturale, elemento fondativo.

Tutta la seconda parte del libro situata in Ungheria, dove Selin accetta di trascorrere l’estate insegnando l’inglese e “cultura americana” ai ragazzi delle campagne per amor di Ivan, e la parentesi conclusiva tra Istanbul e Ankara, coloratissima, struggente, rappresentano se possibile un’elevazione a potenza del clima di stralunatezza del romanzo, così come il cammeo parigino ne è un po’ il cuore emotivo.

La scrittura che informa, tocca, smonta e rimonta i pezzi del reale, sempre sorvegliata, sempre raffinata e chiara, crea un orizzonte immobile in cui tutto sta sospeso in una specie di eterno presente, le cose succedono e non succedono, si stratificano senza finire, quasi che i nessi temporali o di causa-effetto fossero, in fondo, superflui.

Questo pantano dorato, eternamente fluttuante nell’aria, fatto di nomi propri, di errori, di pensieri, di vestiti indossati e voci ascoltate, questo riecheggiare lontano come il mormorio di una fontana invisibile, cercata e mai più trovata, è la giovinezza, un tempo meravigliosamente imperfetto a cui Batuman è riuscita a dedicare un grande tributo.

 

(Elif Batuman, L’idiota, trad. di Martina Testa, Einaudi, 2018, pp. 432, euro 21)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Elif Batuman dà vita con sapiente ironia e raro candore a una storia in cui non accade nulla, riuscendo nell’ardua impresa di far desiderare che il libro, agli sgoccioli dell’ultimo capitolo, non finisca e continui invece a camminarci accanto.