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Musica

James Blake sa sbagliare

"Assume Form", l'ultimo album dell'artista inglese

di Luigi Ippoliti / 23 gennaio

James Blake si è mostrato nel 2011 al pubblico mondiale come un essere alieno. La sua scrittura aveva le sembianze di un cantautorato che non appartenesse a questo mondo. Era riuscito a guardare oltre il preciso contesto storico/musicale dell’epoca, andando a scavare ai confini dell’esistenza, regalandoci un perno su cui far ruotare la musica contemporanea. Il nuovo decennio era appena iniziato e già avevamo un nuovo canone. Con James Blake, il suo primo lavoro, l’artista inglese sembrava aver captato il modo di intendere un modo di declinare il cantautorato di un momento storico futuro.

Il modo di architettare la canzone era del tutto nuovo: soul, pop, R’n’B, elettronica in un’unica formula. A questo, si univa una voce totalizzante che si muoveva con enorme grazia tra i beat, il piano sincopato e i synth. Aspetti che esistono ancora, ma con un peso  inferiore: in questi nove anni le cose sono decisamente cambiate. Assume Form è il suo ultimo lavoro, a tre anni dall’uscita di The Colour in Anything.

Ancora oggi, l’immagine di James Blake ha i contorni eterei del mito. Le sue uscite, i suoi ritorni, rendono la sua attesa un’impresa eroica: Penelope e Ulisse. E nell’hype dei suoi lavori – nella sua interpretazione – c’è molto (troppo) del James Blake di questi tempi.
Fondamentale, infatti, è vedere quanto impatto abbia la combinazione attesa/personaggio in rapporto a quello che è la sua reale produzione artistica.

James Blake è il prototipo dell’artista iper contemporaneo, e questa sospensione del tempo che precede un suo lavoro se la porta dietro in automatico. Ma dovrebbe essere una breve componente, qualcosa che a un certo punto fa spazio all’opera: un’apripista importante, non le fondamenta.

In Assume Form, la cornice catalizza le attenzioni per mancanza di vita nell’album. Ciò che rimane dell’album è il momento precedente all’uscita dell’album.

Con Assume Form, l’impressione è che la spinta vitale verso il futuro stia arrancando. Che il futuro da lui disegnato stia lentamente mutando in un presente appesantito che guarda indietro. La sorpresa prodotta nei primi due album sembra non riuscire a tenere il passo di sé stessa. James Blake dà l’impressione di non stare più al passo di James Blake. In quest’ottica, Bon Iver con 22, a Million ha fatto quello che avrebbe potuto (dovuto) fare lui.

Overgrown, il suo secondo lavoro, continuava sulla scia del precedente. Lì era ancora ben impressa l’idea monumentale che aveva mosso James Blake. Pieno di momenti di altissima scrittura, avevamo tra le mani un dittico che assurgeva l’artista inglese tra i grandi del tempo.

Già con The Colour in Anything, a dispetto dell’enorme talento profuso lungo i diciassette brani, si notava una certa flessione.

Oggi, con Assume Form, non sappiamo bene chi abbiamo di fronte. Perché quest’ultimo lavoro sembra nato in procinto di invecchiare. È privo di novità, impalpabile, la genialità è coperta da soluzioni già sperimentate – chiaramente James Blake è bravo e ci sono momenti da ricordare: la title track, che però si trasforma in una promessa non mantenuta, e l’ultima traccia, “Lullaby for My Insomniac”, una ninnananna ansiogena dove emerge tutto il suo talento.

Il lato preoccupante, però – perché scrivere un album minore non è un reato –, è che abbia voluto strizzare un po’ l’occhio a un certo mondo trap (per esempio “Mile High”, in collaborazione con Travis Scott e Metro Boomin), piegando il suono e le intenzioni a un mercato di più facile fruizione.

Che James Blake si stia trasformando in altro da ciò da ciò che è sempre stato, in un surrogato dell’artista, andando avanti promuovendo un’immagine di sé accattivante con dei contorni falsamente misteriosi, sembrando più un banale mostro commerciale che a un’artista (almeno nelle sue più intime convinzioni) ancora non si può dire. Ciò che si può dire è che Assume Form è il primo passo falso della sua carriera.

LA CRITICA - VOTO 5,5/10

Assume Form è il primo passo falso per James Blake. Nonostante siano tangibili anche qui alcuni sprazzi di talento, quest’ultimo lavoro dell’artista inglese non riesce a competere con i suoi predecessori.