Flanerí

Libri

La malinconia di abbandonarsi alla distruzione

A proposito di “Materia” di Jacopo La Forgia

di Daria De Pascale / 30 settembre

Materia. La fuga degli elementi, il primo romanzo di Jacopo La Forgia (Effequ, 2019), è un libro sfuggente. Rientra forse nel genere un po’ sfumato del romanzo di racconti, in cui attraverso scene e vicende in apparenza separate si crea per accumulo un’unica storia che si dipana, in questo caso, in un tempo e in uno spazio molto vasti, definiti solo in parte.

La Forgia descrive un mondo dolcemente distopico, onirico e carico di malinconia, in cui i nomi dei luoghi sembrano perduti – anche se rimangono ben visibili attraverso le descrizioni dei luoghi stessi – e i confini sono liquidi. Una china per noi ormai ben immaginabile di un mondo in dissoluzione, ocra di sabbia e siccità, grigio di cemento e pioggia che non cade, blu del mare che si espande e inghiotte lentamente la terra.

In questo mondo si muovono i suoi personaggi: Andrea e Gabriele, ognuno alla ricerca di un modo proprio per sopravvivere in un mondo ormai privo di speranza; e poi Elena, il centro del romanzo: una donna forte, eroica e inafferrabile le cui azioni lasciano sempre un’impronta sul futuro. E ancora gli animali, con una propria voce e la stessa dignità di narratori degli uomini – una finezza tra le più apprezzabili del romanzo.

La bellezza profonda di Materia è nell’unità di tutte le cose che sembra avere alla base, nel superamento di un racconto soltanto antropocentrico in favore di una narrazione in cui ogni elemento è parte di un tutto più ampio, e ognuno comunica, anche se non sempre attraverso le parole. Non a caso le parole dette dagli uomini sono aspre, crudeli, mentre quando i personaggi sono in grado di abbandonarsi e vedere, ascoltare davvero il mondo, l’unità che creano è salvifica, pacificatrice.

Questo tentativo di allargare i confini del mondo che racconta porta per via di cose l’autore a sperimentare con la sua narrazione, alcune volte in modo riuscito, altre un po’ meno.
Da una parte ha il grande merito di riuscire a evitare con eleganza il rischio di un messaggio ambientalista un po’ stantio, superando lo sterile senso di colpa umano per la rovina del mondo e creando invece un racconto in cui la distruzione è realtà e tutti possono soltanto farci i conti.
Dall’altra però il legame sottile che sembra legare tutti, in cui tutto passa e ritorna come attraverso continue sincronicità junghiane, provoca una distanza dal racconto: il lettore non ha il tempo né gli strumenti per comprendere, e non può far altro che abbandonarsi anche lui alla marea nella speranza che una spiegazione di ciò a cui assiste arrivi.

E in parte la spiegazione arriva, ma molto resta sospeso, e la lettura è nel frattempo un po’ un atto di fede, anche perché è molto difficile empatizzare con uno qualunque dei personaggi, che al di là di qualche tratteggio forse più psichiatrico che psicologico, sono quasi esclusivamente ciò che fanno, come i protagonisti di un poema epico di un futuro apocalittico. È davvero solo per i cani di Elena che si prova una qualche tenerezza.

A volte è come guardare delle belle fotografie: immagini evocative, che lasciano intravedere spiragli di vite e intuire mondi interi, ma che non sono di per sé esaustive. È come se l’autore scegliesse di mostrare alcune fotografie di una serie immensa, tenendo per sé le altre, e lasciasse a chi guarda l’onere di immaginare ciò che manca.

L’esperimento è indubbiamente interessante, e ci sono alcune immagini destinate a rimanere nella mente a lungo. C’è una Venezia, soprattutto, che si potrebbe guardare all’infinito: abbandonata da turisti e bottegai, lasciata consunta e svuotata ai suoi pochi abitanti, che la vivono come possono mentre finalmente comincia ad affondare, la città a forma di pesce è l’inizio e la fine di tutto.

Rimangono però delle incertezze. Anche il fantastico, e ogni sua variante, ha delle regole, una sorta di patto non scritto con chi legge che gli permette di navigare il racconto e affidarsi all’autore – altrimenti tutto diventa possibile e si rischia di scivolare nella china di un surreale non voluto. Il lasciarsi e rincontrarsi dei personaggi nel mondo, sempre nel momento e nel posto giusto, e i poteri straordinari che sembrano avere, tradiscono quel patto, facendo sentire il lettore in balia, più che degli eventi, delle idee dell’autore.

E, più in generale, lo scorrere di sfondi evocativi e il cogliere appena frammenti di vite, di mondi che forse varrebbe la pena raccontare e che invece scivolano via come se si guardasse da un’auto in corsa, lascia una sorta di insoddisfazione. Come l’artista dell’arazzo che Elena si trova un giorno a osservare, forse anche La Forgia è «uno di quelli che considerano il movimento più reale dell’immobilità, e la trasformazione delle cose più ricca d’insegnamenti delle cose stesse».

Certo è che, più che la malinconia di cui Materia è intriso, a rimanere è l’amaro in bocca per il bel romanzo distopico che ha abbozzato ma che non ha ancora scritto.

 

(Jacopo La Forgia, Materia. La fuga degli elementi, Effequ, 2019, 160 pp., euro 15, articolo di Daria De Pascale)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Un romanzo dolcemente distopico, affascinante esperimento formale ma con delle incertezze a livello narrativo.