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Favola in forma di apologo

Da Leon Battista Alberti a Italo Calvino

di Priscilla Santoro / 23 ottobre

La tassonomia relativa alla favola annovera disparate variazioni formali: benché i margini distintivi che distinguono una tipologia da un’altra siano talmente sottili da indurre talvolta alla sovrapposizione di alcune fisionomie favolistiche, risulta comunque praticabile una distinzione teorica, al cui interno si computa anche la favola in forma di apologo in prosa e in versi.

L’origine di questo tipo letterario, testimoniato persino in alcuni frammenti di Archiloco, Stesicoro ed Esiodo e citato nelle commedie di Aristofane e nel Fedone platonico, s’intreccia talora con molti dei celeberrimi racconti esopiani (un esempio per tutti Il ventre e i piedi), poi recuperati da Fedro; diffusa anche nella civiltà latina (si pensi alle argomentazioni di Ennio e di Cicerone), questa forma narrativa vede nell’Apologo delle membra di Menenio Agrippa, riportato nelle Historie di Tacito, il più noto appello alla collaborazione tra popolo e senato, allegoricamente rappresentata dalla interrelazione degli organi da cui dipende la sopravvivenza del corpo umano.

 

Fisionomia in prospettiva

La costante fondamentale dell’apologo è costituita dalla finalità pedagogica. Infatti, le caratteristiche principali risiedono sì nei personaggi (animali con attitudine umana oppure oggetti animati) e nella struttura incisiva dell’intreccio, ma, soprattutto, negli aneliti apodittico-didattici: la componente narrativa viene così proiettata alla rivelazione di uno specifico paradigma, spesso evocato già nel corpo centrale del testo, ma meno elaborato e brioso di una fabula tradizionale o di una parabola, con la quale nondimeno l’apologo condivide le istanze educative.

Nel Medioevo, questa forma favolistica viene spesso adottata in contesti religiosi, poiché l’impostazione pedagogica ne facilita l’uso esemplare allo scopo di ammaestramento etico-cristiano. Al contrario, in ambito umanistico-rinascimentale, l’apologo conosce (come avviene d’altronde anche per altri generi letterari) un affrancamento da tale prospettiva, orientandosi verso una raffigurazione immanente dell’uomo.

I Cento Apologhi ed elogi latini (1437) di Leon Battista Alberti, responsabile del nuovo impulso conosciuto da questa tipologia narrativa, spiccano nello scenario letterario di quegli anni grazie, specialmente, alla carica innovativa originata dalla commistione tra oscurità, brevità e rapidità d’eloquio.

Così recita il decimo apologo, Il fuoco dell’invidioso: «L’invidioso, celando in seno il fuoco che per primo aveva trovato, sperava di tenerlo nascosto a tutti. La fiamma balzò fuori bruciandogli le vesti». E ancora, il sessantacinquesimo apologo, La scintilla e la stella: «La scintilla, che era agile e splendente, pensava di diventare una stella, ma si offuscò».

L’impianto apodittico della favola in forma di apologo ne favorisce la circolazione anche nel Sei e nel Settecento, quando però il contesto paratestuale che lo compone inizia a subire delle considerevoli modifiche, aprendosi a generi di riferimento precedentemente considerati, per rispetto del canone tradizionale, impropri ad accogliere questo tipo di racconto.

Si pensi all’apologo scientifico di Galilei, inserito nel ventunesimo capitolo del trattato Il Saggiatore (1623) e annoverato nella Crestomazia italiana della prosa di Leopardi (1827). Nell’intero svolgimento dell’intreccio, l’uomo «d’ingegno perspicacissimo», alla ricerca di nuovi suoni da indagare nel tentativo di comprenderne l’origine, ma, infine, impossibilitato ad analizzare il frinire della cicala a causa della prematura morte dell’insetto, rappresenta lo scienziato che applica allo studio delle comete il metodo scientifico.

La duplice morale conclusiva tradisce l’elaborata tessitura di quest’apologo sui generis, utile a rimarcare il carattere provvisorio e, talora, persino parziale di ogni esperienza sensoriale: «Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inescogitabili da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità […]; e la difficoltà dell’intendere come si formi il canto della cicala, mentr’ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa».

Copertina di il Saggiatore di Galilei Apologo

L’evoluzione paratestuale dell’apologo prosegue anche nell’Ottocento, quando, alla forma tradizionale (frequentata, ad esempio, dai versi di Luigi Carrer) si affianca l’apologo giornalistico, il cui rilievo si spiega anche perché funzionale alla coeva campagna patriottico-risorgimentale – che, pure, influenza l’impianto delle raccolte canoniche. Basti come esempio la sezione di apologhi in versi da Le Lucciole. Il Canzoniere (Redaelli, 1858) di Ippolito Nievo, in cui convivono, appunto, fermenti risorgimentali e allusioni patriottiche.


L’approdo al Novecento

Nel Novecento i modelli di apologo inteso o come ricerca esistenziale o come allegoria sociale sembrano convivere, all’insegna, tuttavia, di un paradosso abbastanza frequente: alla morale pessimistica degli apologhi lirico-riflessivi, infatti, si contrappone la chiusa ottimistica dei racconti socio-politici.

Si pensi, ad esempio, ai Tre Apologhi che, insieme alle Due fiabe, figurano in L’odore del fieno (Mondadori, 1972), la raccolta conclusiva del ciclo di storie Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani.

Pur assumendo che la distinzione tra generi letterari, data la comune origine poetica di ogni scritto, viene intesa dall’autore come una suddivisione puramente formale, la connotazione esistenziale propria dei tre racconti di probabile ispirazione autobiografica denota una consapevole volontà allegorico-simbolica. Infatti se, da un lato, i viaggi alla volta di Roma e Napoli nel primo e nel secondo apologo (ma anche la curiosa indagine fotografica del terzo) rappresentano tanto la contrapposizione tra il fascino esercitato dalla pacifica vita in provincia e il subbuglio cittadino quanto l’auspicato ritorno all’età giovanile, dall’altro simboleggiano un’ideale pellegrinazione del soggetto in cerca di se stesso – e forse anche lo stile descrittivo adottato potrebbe rispondere non semplicemente a istanze realistiche bensì anche a un’intensa ricerca di ulteriore significato.

Anche Carlo Betocchi con Di alcuni nonnulla. Apologhi (a cura di A. Bellettato, Edizioni dei Dioscuri, 1979) propone delle allegorie esistenziali, le quali non di rado sfumano in riflessioni liriche, specificamente incentrate su questioni amorose derivate da letture condotte tra gli anni 1951 e 1954: in un quadro di ambigua enigmaticità, infatti, le frammentarie suggestioni dell’Io sembrano rincorrere pur disillusi tentativi di acquisizioni gnoseologiche. Ne consegue, nonostante il registro ironico che spesso caratterizza lo svolgimento narrativo, una morale ridotta ad aforismatica sententia malinconica.

Infine, di taglio opposto appare il celeberrimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, pubblicato su La Repubblica del 15 marzo 1980 da Calvino. La portata socio-politica di questa favola in forma di apologo si basa su due meccanismi stilistico-retorici: in primo luogo, la contrapposizione tra l’Italia dei meccanismi finanziari che alimentarono Tangentopoli, delle connivenze mafiose, degli atti terroristici e l’Italia dei cittadini integri. In secondo luogo, il rovesciamento ironico dei due poli di questo binomio; al «paese che si [regge] sull’illecito» Calvino oppone la «controsocietà degli onesti […] per tic nervoso»: «Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che […] la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è».