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Libri

Quando l’opera è schiava del suo autore

“La ragazza nel portabagagli” di John O’Hara

di Alessandro Chiappanuvoli / 28 marzo

Sono convinto che quando si affronta per la prima volta un autore sia bene leggere il libro senza informarsi sulla sua biografia, e che questa condizione dovrebbe valere ancor più se l’autore in questione è un tizio eccentrico come John O’Hara, un uomo non certo facile, come ci ricorda Stefano Friani nella sua postfazione a La ragazza nel portabagagli, edito da Racconti edizioni (2019) – primo volume della trilogia Prediche e acqua minerale di prossima pubblicazione.

«Il ricordo del suo temperamento del resto è tanto unanime quanto lapidario. Era un rissoso e aveva orari irregolari, beveva troppo e non le mandava certo a dire».

Ma John O’Hara è anche l’autore recordman di 247 racconti pubblicati su The New Yorker, lo scrittore di romanzi come Appuntamento a Samarra e Venere in visone molto apprezzati da Hemingway e di sceneggiature che sono diventate film con attori del calibro di Rita Hayworth, Elizabeth Taylor, Frank Sinatra e Gary Cooper; un autore tanto amato dal pubblico, quanto discusso dalla critica «senza riuscire però a scrollarsi mai del tutto di dosso l’etichetta snobistica di “scrittore di prima fascia tra quelli di seconda”», etichetta sulla quale ragioneremo in seguito. Il personaggio O’Hara, insomma, travalica, invade il campo della sua opera ed è arduo mantenere neutro il giudizio. E qui mi taccio, cosciente di aver già detto troppo.

Torniamo al libro, adesso. La ragazza nel portabagagli è un racconto lungo. La sua trama si sviluppa nell’arco di un trentennio e ci viene racconta come lucido ricordo dalla voce narrante del protagonista, Jim Malloy – vero e proprio alter ego di John O’Hara.

Jim è uno scrittore in erba della Pennsylvania che si arrabatta a New York tra lavori minori per riviste e per case di produzione cinematografica. È scaltro, ha la lingua veloce, sa leggere le situazioni in cui si trova e ha una viscerale passione per la mondanità. Per essere un irlandese di provincia che non ha potuto frequentare l’università si barcamena molto bene nell’alta società newyorkese, bazzicando sia i country club sia gli speakeasy, i bar clandestini dell’America proibizionista. Siamo all’inizio del “secolo breve”, sta per scoppiare il primo conflitto mondiale, il cinema è all’alba dell’avvento del sonoro, Wall Street e il “dollaro facile” vivono il loro sogno idilliaco: mai come allora si è avuta l’impressione che la ricchezza potesse essere alla portata di tutti.

Per una settimana Jim ha il compito di fare da accompagnatore e di soddisfare i bisogni di una diva di Hollywood, Charlotte Sears, arrivata nella Grande Mela per discutere degli sviluppi della sua carriera con l’agenzia per cui sono entrambi impiegati. In segreto, però, Charlotte è a New York anche per un altro motivo, incontrarsi con l’uomo che ama, Thomas Rodney Hunterden, un oscuro quanto discusso affarista di Wall Street, che ha in comune con Jim la città natale, Gibbsville.

Tra festa mondane, speakeasy, camere d’albergo e residenze lussuose di ricchi personaggi newyorkesi si dipanerà un intrigo tutto amore e affari che non potrà che coinvolgere il lettore fin dentro le sue conseguenze più fosche. Uno spaccato dell’America bene che richiama le tinte dorate del Grande Gatsby di Fitzgerald ma che al contempo trae alimento delle torbide contraddizioni di una società classista quanto puritana, liberalista quanto ipocrita.

Da un punto di vista stilistico, La ragazza nel portabagagli mostra aspetti abbastanza netti: la struttura è sottile, quasi invisibile, le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi sono pressoché assenti, le riflessioni sono ridotte all’osso, le scene sono affidate a dettagli scarni, tutto, dagli intrighi della trama all’interpretazione della vicenda, è affidato, concentrato nei dialoghi. Dialoghi talmente verosimili, dettagliati, carichi di impeccabili similitudini, che se tenessi un corso di scrittura creativa, di certo li farei studiare ai miei allievi.

Ed è proprio in questa tecnica magistrale che si esprime a parere della critica, come ricorda Friani, il grande potenziale di O’Hara, la sua capacità di rendere realistica una storia mondana e familiare un ambiente elitario, animati da personaggi dai modi formali, eccentrici, snob persino, che poco hanno a che spartire con il lettore medio.

«I personaggi di O’Hara sembrano essere più che realistici, più che veritieri; hanno bisogno di parlare, e nella schiettezza e ineluttabilità delle parole ormai pronunciate suscitano qualcosa che assomiglia forse alla pietà».

Si crea così una sorta di implicita complicità, molto simile a quella che si può provare per i protagonisti di una soap opera, ma carica anche di un’umanità straniante, per certi versi innocente.

In chiusura, quindi, torniamo sull’etichetta che grande parte della critica ha affibbiato a O’Hara: è uno scrittore di prima fascia da riscoprire o è uno «scrittore di prima fascia tra quelli di seconda»? Sbilanciandomi – conscio del limitato materiale sul quale esprimo il giudizio – propenderei per dare credito alla critica. Utilizzando una bassa metafora calcistica, direi che O’Hara è un top player da Serie B, uno di quelli dotati di tecnica sopraffina ma condizionati da un carattere difficile che nella serie cadetta garantirebbe trenta goal a stagione, ma in Seria A potrebbe offrire solo sporadici colpi di classe. Uno di quei calciatori, insomma, che si potrebbe amare solo prendendolo così com’è: tutto genio e sregolatezza.

La ragazza nel portabagagli è dunque un libro da studiare più che da leggere, un’opera dalla quale rubare i segreti del mestiere, la tecnica del dialogo, in attesa che si dipani del tutto la foschia che ancora aleggia intorno al suo autore; un autore ingombrante, forse non di prima categoria, ma senza dubbio magistrale quando gioca nel suo campo con le sue armi.

(John O’Hara, La ragazza nel portabagagli, trad. di Vincenzo Mantovani, Racconti edizioni, 2019, pp. 128, euro 13, articolo di Alessandro Chiappanuvoli)