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Libri

«Aveva fatto come Fiume: aveva accolto il male dentro di sé e non l’aveva restituito»

Intervista a Silvia Cuttin

di Andrea Rényi / 9 aprile

Il termine città-stato viene immancabilmente associato all’antica Grecia, ad Atene, a Sparta, o in tempi moderni al Vaticano o a Singapore. A pochi viene in mente che una novantina d’anni fa esisteva una città che apparteneva alla Corona d’Ungheria ma godeva di uno status autonomo riconosciuto dalle grandi potenze europee: Rijeka, o Fiume, nel golfo del Carnaro, annessa dagli Asburgo nel 1466. È sempre stata una città cosmopolita, dove il mondo latino rappresentato dagli italiani si incontrava con il mondo panslavo dei croati e sloveni, con la cultura germanica degli austriaci, e con lo stato emotivo siamo un’isola degli ungheresi. E in più c’è il mare, che stimola la sensazione di vicinanza al mondo intero. Una città di mille colori, la Mitteleuropa in miniatura. Un corpus separatum nell’Impero che nel Settecento diventa porto libero, acquisisce autonomia commerciale, e viene annesso al Regno d’Ungheria. Nel 1848, per un ventennio, diventa croato per tornare, nel 1868, alla corona ungherese. È l’unico porto, l’unico sbocco al mare dell’Ungheria, e sotto l’amministrazione ungherese si dota di importanti strutture produttive.

Fiume/Rijeka era anche una città laica, lo dimostra il numero esiguo di chiese. Una città in cui convivevano pacificamente cattolici, protestanti, greco-ortodossi ed ebrei, immigrati prevalentemente dai territori del Regno d’Ungheria. Verso la fine dell’Ottocento molti parlavano quattro lingue: l’italiano, il croato, il tedesco e l’ungherese. La società fiumana era aperta, e anche le donne godevano di una certa libertà inconsueta altrove.

Nel 1918 si dissolve la monarchia Austro-Ungarica e il destino di Fiume diventa incerto. La sua appartenenza diviene una questione complessa e discussa fra italiani e croati. Gabriele D’Annunzio lancia l’impresa volta a occupare la città, ed è questo il capitolo di storia fiumana che dà l’inizio al romanzo di Silvia Cuttin, Il vento degli altri (Pendragon, 2017) una lettura che rappresenta un ottimo modo per accostarsi alla città capitale europea della cultura 2020, oggi ufficialmente Rijeka, e porto principale della Croazia indipendente.

Anche se non è strettamente collegato con il libro, da ungherese non posso non dedicare due parole anche alla funzione fondamentale che la città di Fiume ha avuto negli scambi letterari fra italiani e ungheresi. Si forma in questa città la prima generazione di intellettuali bilingui italo-ungheresi cui deve molto la letteratura di entrambe le lingue. Alla simbiosi della cultura italiana con quella ungherese a Fiume si deve la grande fortuna della letteratura ungherese in Italia fra le due guerre mondiali, quando decine di romanzi diventano bestseller nelle librerie italiane, grazie all’instancabile lavoro di traduttori, appunto, fiumani. Il primo grande successo italiano delle opere di Sándor Márai risale proprio a quest’epoca ed è attribuibile a questo contesto.

Con Il vento degli altri la bolognese Silvia Cuttin, di origini disparate compresa quella fiumana, già autrice di due titoli e forte di esperienze lavorative che richiedono una buona padronanza della scrittura, erge un monumento all’identità irriducibile di una città chiave della storia del Novecento. Silvia Cuttin si definisce una tessitrice che scrive storie con innumerevoli fili, e difatti ne tiene ben tesi diversi anche in questo romanzo che abbraccia un secolo di storia fiumana, quindi europea. Un’opera solida che mette a frutto un notevole impegno preparatorio e matura con le pagine. Dopo un inizio inibito, la trama e la scrittura si irrobustiscono, con lo scorrere delle pagine cresce il coinvolgimento, i personaggi e l’ambientazione acquisiscono peso e solidità. Il filo conduttore è la vicenda di Elena aspirante cantante lirica che per la prima volta incontriamo bambina, e la accompagniamo fino al termine della sua lunga esistenza avventurosa eppure statica perché interamente trascorsa nella sua città natale. «Aveva vissuto anni bellissimi e, allo stesso tempo, terribili: la storia di quei luoghi di confine era stata particolarmente dura e dolorosa. E ancora guerra, dopo, quella che c’era stata qualche anno prima che aveva influito anche su Fiume, con gli ennesimi spostamenti di popolazione. Ma Elena, di quella guerra recente, non aveva voluto sapere, la sua vita era già stata troppo piena così».

La lettura del romanzo ha stimolato alcune curiosità che hanno assunto la forma di domande, che Silvia Cuttin ha accolto, e le sue risposte sono tutte fuorché scontate:

 

Nei due capitoli intitolati Note al testo e Ringraziamenti e riconoscimenti, il lettore può farsi un’idea di massima del tuoi legami con la città di Fiume, ma credo che dietro ci sia una storia ricca di elementi interessanti.  Puoi svelarne qualcuno, come le ragioni per cui i tuoi avi scelsero Fiume e perché decisero di andarsene?

Le mie origini fiumane sono legate alla famiglia materna, sebbene abbia avuto qualche lontano avo di quelle zone anche per parte di padre. I nonni materni si sono sposati a Fiume nel 1925 e dopo qualche anno si sono trasferiti a Trieste; hanno dunque vissuto l’esodo solo attraverso i loro familiari, quasi tutti rimasti in quella città. Da quel che so, la famiglia di mia nonna era mista: fiumana di lingua italiana come la maggioranza della popolazione di allora, cognomi tipicamente italiani, anche se sembra che la bisnonna fosse croata. Mia nonna aveva frequentato le scuole ungheresi, conservo un libretto bilingue con la composizione delle classi. Era cattolica e per sposare mio nonno si era convertita all’ebraismo. Aveva dieci fratelli, che rimasero a Fiume. Non so molto di loro, in famiglia si è sempre parlato poco di quella parte di storie tragiche. Nel 1945 riuscirono a fuggire tutti, ad eccezione di sua madre e di due fratelli che non fecero in tempo: furono arrestati dai titini e uccisi in carcere. Erano fascisti? Può essere, sicuramente erano benestanti, possedevano una villetta con giardino, sono andata a vederla in una delle mie recenti peregrinazioni a Fiume. Ora ci abitano diverse famiglie, ho guardato i campanelli, c’è pure un B&B. Ho avuto per un attimo la curiosità di ricostruire come li avessero avuti, quegli appartamenti. In realtà, anche se si potesse, non vorrei sapere. Come non pensare al bellissimo film Ida (del regista Pawel Pawlikowski, ambientato in Polonia), che racconta di persone che hanno colto l’occasione di una situazione orribile per stare meglio, anche se a danno di altri. Un esempio mutuabile ad altri contesti e che, in maniera diversa, credo si sia verificato anche a Fiume. Di fatto, non tanto e non solo una questione etnica, quanto economica.

La famiglia di mio nonno materno, invece, era arrivata a Fiume nel 1913 dalla Transilvania ungherese. Il mio bisnonno era panettiere al servizio delle Regie Ferrovie ungheresi e si spostava lungo le direttrici della costruzione delle linee ferroviarie. Per questo motivo i suoi dieci figli erano nati ognuno in un villaggio diverso. Nell’ultimo paese in cui si erano fermati facevano la fame, si trasferirono così a Fiume. In famiglia si dice che da lì volessero emigrare per gli Stati Uniti, sta di fatto che in quella città si stabilirono. Lì si trovava lavoro e c’era molta più tolleranza verso gli ebrei che nell’Ungheria rurale. Erano ebrei ortodossi, i bisnonni continuarono a parlare in yiddish anche a Fiume, oltre che a mangiare borsht e cetrioli in salamoia. La comunità ebraica ortodossa era numerosa, c’erano addirittura due comunità e due sinagoghe distinte, una Neolog e l’altra ortodossa.

Nel 1938 agli ebrei di quelle zone, a differenza che nel resto d’Italia, venne ritirata la cittadinanza italiana, divennero apolidi oppure stranieri, a seconda dei diversi casi burocratici. Nel 1940, quando l’Italia entrò in guerra, tutti i maschi di età compresa tra 18 e 60 anni vennero mandati in campi di internamento fascisti nel Sud Italia in quanto ebrei stranieri/apolidi. Forse fu per quello che, pur non in maniera facile, i fratelli di mio nonno si salvarono. Nel 1943 la Germania annesse (a differenza del resto d’Italia che fu occupato) il Trentino, parte della Venezia Giulia e Fiume, Istria e Dalmazia. A Fiume di ebrei ce ne erano ormai pochi: tra questi i miei bisnonni insieme con una delle figlie rimasta con loro per accudirli. Furono presi dai nazisti e deportati ad Auschwitz; non si sa se siano mai arrivati o se siano morti prima, già alla Risiera di San Sabba o in treno: avevano ottant’anni.

Finita la guerra o poco dopo nella Fiume occupata dall’esercito di Tito, della mia famiglia non era rimasto nessuno e nessuno di loro, ovviamente, tornò. Se non mia nonna che un paio di volte andò a cercare la madre e i fratelli “spariti”, senza ottenere nessuna informazione se non l’avvertimento di non tornare più altrimenti l’avrebbero arrestata. Un piccolo racconto che ho inserito, romanzandolo, in Il vento degli altri.

Tornando alla domanda, non si è trattato di decisioni prese ma di fatalità dovute ai conflitti intrecciati che si ebbero in quelle zone in periodo di guerra e prima a causa delle leggi razziali: chi perse la vita, chi perse tutto quello che aveva a fatica costruito. Sei dei ragazzi ebrei emigrarono negli Stati Uniti e non tornarono, i loro genitori rimasero in Italia dove dal 1943 erano stati nascosti. Gli altri furono esuli e si stabilirono in diverse città italiane.

 

 

 

Il titolo del romanzo ricorda il titolo del film di Florian Henckel von Donnersmarck, Das Leben der Anderen, La vita degli altri, che in italiano è diventato Le vite degli altri, una pietra miliare nella cinematografia storiografica. Come è nato il titolo del libro?

Le vite degli altri racconta di vite spiate, di vite controllate. Sotto il regime fascista e in seguito sotto quello comunista di Tito il controllo c’era, ed era invadente. Nel libro ne accenno, ma il livello di controllo non raggiungeva quello più moderno adottato nella DDR. È anche vero che si può immaginare di essere degli spettatori nascosti quando si legge un romanzo, entrando non visti nelle vite dei personaggi!

Riguardo al titolo, avevo buttato lì un titolo banale, sperando di avere una folgorazione in corso d’opera o che venisse un suggerimento dall’editore. Quando mi sono resa conto che nessuna delle due possibilità si verificava, ho cominciato a pensarci sul serio. Ci sono arrivata dopo tre giorni, concatenando parole e idee. Ho pensato che quelle zone sono famose per la bora, un vento davvero forte, a raffiche: il vento era un buon punto di partenza. E lì c’è il mare, si va in barca a vela, il vento cambia e ti puoi trovare al largo senza vento, o sbattuto contro gli scogli per un mutamento improvviso di vento. Il vento può essere a favore o contrario e può cambiare, questo insegna il mare. Chi ha il vento a favore in un determinato periodo, può trovarsi poco dopo con il vento contrario. E ti può capitare, insieme al vento che cambia, di trasformarti negli altri, dall’oggi al domani. Effettivamente così è successo lì, e più volte.

In un paio di occasioni, a una presentazione e in una scuola, mi hanno dato un’interpretazione del titolo diversa da quella che avevo pensato io: entrambe potevano essere giuste, mi ci ritrovavo, mi erano piaciute, erano attinenti a quello che avevo raccontato. Purtroppo non me le sono scritte e mi sono subito scappate di mente, come accade spesso con qualcosa che colpisce nel giusto.

 

Il vento degli altri è anche lo specchio della complessità della Storia, che a Fiume sembra aver persino esagerato. Come la vedi oggi la città, la Rijeka croata? Conserva ancora i connotati del passato

Conosco poco la città attuale e soprattutto non conosco i suoi abitanti, al di là dei rimasti, che però non considero un esempio di croaticità.

La prima volta che sono stata a Fiume avevo quindici o sedici anni, ero con mia madre e uno dei suoi cugini nato e cresciuto lì, fino a che gli è stato permesso abitarvi. La città era grigia, le case cadenti, tristi. Questo mi ricordo: il grigiore diffuso. Non capivo quella visita, una città così brutta! Ero troppo giovane e disattenta per cogliere quello che vedevano loro, qualcosa che non c’era più se non nei loro ricordi. La seconda volta che ci sono andata è stato moltissimi anni dopo, la Jugoslavia non esisteva più e Fiume era in Croazia. Gli edifici più belli erano stati restaurati, erano state create piacevoli isole pedonali, la gente passeggiava e si fermava nei bar del Corso, i negozi avevano vetrine come le nostre. Una città completamente diversa da quella che avevo visto, da quella che ricordavo. Simile a Trieste, anche se più piccola e certamente meno bella. L’Impero austro-ungarico è rimasto preponderante in entrambe le città. Ho notato la mancanza dei cafè in stile viennese o di Budapest e che a Trieste ci sono ancora; la gente è molto diversa, con tipiche caratteristiche slave. Mi hanno detto che, oltre ai venuti, cioè chi ha sostituito i circa 30.000 esuli di Fiume tra il 1945 e il 1948, c’è stato un altro cambiamento di popolazione con la guerra degli anni Novanta.

A questa tua domanda rispondo che il contenitore ricorda ancora molto la città che era, ma le caratteristiche che la rendevano speciale non ci sono più. Non si parlano più quattro lingue, non è più una città multiculturale, non so se sia tollerante ma propendo per il no, non credo che sia particolarmente accogliente con i diversi.

Porto un esempio che credo possa far capire qualcosa in più. Da febbraio 2020 e per un anno, Fiume/Rijeka è Capitale europea della cultura con un progetto dal titolo Il porto delle diversità. Ebbene, la Comunità degli italiani di Fiume ha presentato diverse iniziative da inserire nel cartellone generale. Non ne è stata accettata neanche una e non credo che fossero tutte poco interessanti. Saranno presenti ufficialmente solo con un banchetto gastronomico che presenta le specialità italiane (italiane di quella zona, intendiamoci). Se faranno qualcosa, lo faranno autonomamente; agli italiani è stata negata una presenza nella storia della città. Perché questo? Perché il nazionalismo croato continua a negare il fatto che lì ci sia stata una presenza italiana antecedente a quella fascista. Era un’italianità soprattutto di lingua, un’italianità mista ma che esisteva da secoli. Una storia che i croati tentano di cancellare – compresa quella della presenza veneziana che però non ha toccato Fiume – e direi che ci sono per la gran parte riusciti. Forse non crediamo a un Marko Polo croato ma è già indicativo che anche in italiano si dica spesso Zagreb e non Zagabria o Krk invece di Veglia. Mentre diciamo Parigi, e non Paris.

 

 

 

Il lettore avverte più di un nesso fra le vicende di Fiume e la storia attuale. Secondo te quali sono i legami fra il passato e il presente? Che cosa ci insegna Fiume?

Secondo me, innanzitutto Fiume ci insegna che le situazioni si ripetono, anche se non uguali.  Bisogna prestare attenzione, analizzare e riflettere per individuare le somiglianze e per comprenderle. Nel caso di questo libro si tratta di Fiume ma probabilmente ci sono altri luoghi che potrebbero avere lo stesso ruolo. Ci insegna che, come dicevo riguardo al titolo del libro, i fortunati possiamo essere noi in un determinato momento e non troppo tempo dopo potremmo non esserlo più. Questo, in teoria, ci dovrebbe rendere più attenti verso l’altro, verso chi fortunato lo è meno. Porsi nei confronti dell’altro cercando di capire davvero, non da superiori. Sarà forse idealismo, il mio, o buonismo? Forse sì, io credo però che chi come me ha una provenienza così mista e che ha vissuto – anche se non direttamente – così tante difficoltà e drammi non possa non identificarsi perennemente con l’altro, con il dolore dell’altro. E anche l’identità ha una diversa connotazione, non è legata alla nazione, non è unica, ma è altro; forse è una perenne ricerca.

La Fiume dei secoli scorsi ci insegna anche che la mescolanza di popoli, di lingue, di usanze e di tradizioni è positiva e ci arricchisce. Sono consapevole di avere un po’ idealizzato l’atmosfera della città che ho ricostruito nel romanzo, ma mi è venuta dalle letture fatte, dai racconti che ho raccolto in tanti anni e forse anche da quanto ho respirato in famiglia. Mi piacerebbe potere affermare che se riuscissimo a ricostruire quel clima di accoglienza e di accettazione delle differenze senza necessariamente cancellarle potremmo risolvere in parte la situazione odierna. Quell’atmosfera esisteva anche a Sarajevo o a Istanbul, faceva parte dell’epoca dei grandi imperi, tempi scomparsi e non recuperabili, al di là che non sarebbe il caso di recuperare. Leggendo un romanzo (e prima scrivendolo) ci si permette di sognare un po’, e allora, facciamolo.

 

 

(Silvia Cuttin, Il vento degli altri, Pendragon, 2017. pp. 334, € 16.00 | Intervista di )