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Cinema

Storia di una strana formazione

Su “Dogtooth” di Yorgos Lanthimos

di Emanuele Pon / 18 settembre

Grazie all’infinita lungimiranza del sistema di distribuzione cinematografica italiano ora anche noi, con soli undici anni di ritardo, possiamo familiarizzare con Dogtooth. Vincitore, nel lontano 2009, del Prix Un Certain Regard al Festival di Cannes, è il secondo lungometraggio del regista greco Yorgos Lanthimos, nome oggi sulla bocca di tutti, assurto al favore del grande pubblico e delle major grazie a un film come La favorita (2018). 

Proprio questo Dogtooth può essere considerato, con il senno di poi, un punto di partenza ineludibile per un discorso sul cinema di Lanthimos, il cui stile è andato modificandosi ed evolvendosi nel corso degli anni, certo, ma che in nuce è già tutto in questa novantina di minuti. 

Ci troviamo catapultati nelle dinamiche di una famiglia dell’alta borghesia imprenditoriale greca: Padre, Madre, tre Figli. Come sempre in Lanthimos, la stranezza, la weirdness, arriva inaspettata attraverso un elemento semplice, che fa quasi sorridere: viene in mente uno di quei piccoli taglietti inavvertiti, destinato però ad allargarsi in una ferita colossale entro la fine del film.

Il primo elemento spiazzante in Dogtooth è il linguaggio, inteso come insieme di segni linguistici elementari. È il codice che plasma la realtà, ed ecco ciò che fanno i Genitori della famiglia: distorcono il linguaggio e con esso la realtà. Questa, tuttavia, appare distorta a loro due – che, in quanto Madre e Padre, sono depositari dell’esperienza negativa e orrorifica del “mondo fuori” – e a noi spettatori – che dal “mondo fuori” arriviamo –, ma non ai tre Figli: per loro quella è l’unica realtà, nel senso che non ne conoscono altra.

Una storia di segregazione e di clausura, dunque, ma non coatte: questo proprio perché il Figlio e le due Figlie non sono consapevoli della loro condizione di prigionia. Anzi, c’è di più: l’opera di costruzione di una realtà alternativa, da parte del Padre-Demiurgo-Burattinaio, è talmente convincente da non essere mai messa in discussione. Dopotutto, la famiglia è la prima sede della costruzione della propria identità: in principio non serve altro a definirci. Se Papà dice che “mare” significa “poltrona”, allora “mare” significa “poltrona”.

Ecco perché Lanthimos è interessato, proprio come uno scienziato che osservi le sue cavie in laboratorio, alle dinamiche di questa famiglia. La famiglia, in Dogtooth e anche nella vita reale, è sineddoche della realtà: qui è fondamentalmente distorta, maniacale e solitaria, perché così appare la società. Infatti, all’interno di questa bizzarra famiglia le persone non hanno un nome, sono definite soltanto dal proprio ruolo –  “la più grande” riferito alla Figlia Maggiore, ad esempio –, e il sistema di regole è rassicurante per chi sta dentro e profondamente escludente per chi sta fuori, visto come un pericolo. La realtà è fatta di non-rapporti, basati su solitudine, follia e violenza, che sono poi i temi di fondo di tutto il cinema di Lanthimos.

Dogtooth è una storia di solitudini che abitano lo stesso spazio, la cui folle tranquillità è turbata dall’irruzione del classico elemento unheimlich (ossia “perturbante”, nella definizione che è passata da Freud fino ai più recenti contributi di Mark Fisher) proveniente dall’esterno.

La soglia tra mondo ordinario e mondo esterno è evidente: una siepe ed una staccionata circondano l’intera proprietà, fino al cancello d’ingresso. L’unico autorizzato a varcare la soglia è il Padre, che prende la macchina – dispositivo misterioso e quasi magico agli occhi dei ragazzi – e si avventura a solcare le pericolose lande dell’esterno. Persino lui, però, sa che certe pulsioni non possono essere controllate.

Per dare sfogo al desiderio sessuale del Figlio Maggiore, conduce in Casa una addetta alla security della Compagnia presso cui lavora. Eccolo, l’elemento esterno che irrompe e che, con la forza sommessa ma costante di una goccia, scardina l’equilibrio dell’interno. Christina porta con sé il “mondo fuori”. La sessualità esplode nelle stanze dei tre figli; gli oggetti di tutti i giorni – come un cerchietto per capelli – diventano luccicanti testimonianze di un altro mondo possibile; dulcis in fundo, su tutto questo Lanthimos cala pure un sottile velo metacinematografico, nel momento in cui la Figlia Maggiore ottiene da Christina delle videocassette dove sono registrati Rocky, Lo Squalo e Flashdance, proibiti come fossero film porno. Saranno questi film, infatti, a darle l’opportunità di costruirsi una nuova, “vera” identità all’interno della quale lei, “la più grande”, arriverà a darsi il nome di Bruce, e a recidere il legame con la vecchia realtà – incarnato dal canino, il Dogtooth del titolo – per poter scappare.

A tenere Dogtooth al riparo dall’essere un horror come se ne sono visti tanti, ci pensa proprio la regia di Lanthimos: è un cinema, quello del greco, che intende rendere il folle e l’inquietante nella maniera più naturalistica possibile. Il surreale e il perturbante che fanno da tessuto di fondo al film nascono proprio dal cozzare tra la follia di ciò che succede e il modo in cui essa è narrata.

La regia di Lanthimos è compassata, lenta e distante, sembra un cannocchiale rovesciato che ci mostra i personaggi da lontano, alle prese con la loro vita, davvero come se stessimo osservando delle cavie sottovetro.

Anche la regia ci prende per mano, conducendoci tra le pieghe della stranezza: è tutto normale, ma le inquadrature sono tagliate, sghembe o addirittura sfocate. Teste mozzate dalla scena, dialoghi di spalle, tagli di montaggio secchi come lame, nessuna musica ad accompagnare: l’esperimento comincia così, con un occhio che mostra (a volte ancora in modo troppo autoriale e compiaciuto) il quotidiano da un altro punto di vista.

Poi, in modo documentaristico, ai nostri occhi non è risparmiato nulla: il corpo irrompe sulla scena, come una marionetta da studiare, tra sangue, lingua e sesso; la violenza fisica è efferata ma, miracolosamente – e ricordando la lunga tradizione surrealista spagnola, da Bunuel a Almodovar – ci fa quasi ridere, come quando il Figlio Maggiore squarta un gatto perché ne è terrorizzato. La violenza psicologica è un basso profondo, sempre presente nei dialoghi, ancor più nei silenzi.

Un cinema di silenzi, di bianchi abbacinanti, di spazi allungati dove la luce illumina i vuoti: tutto, in Dogtooth, è funzionale alla messa in scena della realtà solitaria dei tre Figli e della loro Casa. Lanthimos già nel 2009 dava prova di sapersi guardare intorno, facendo propria la lezione di grandi scrittori visivi della solitudine: da Michael Haneke (il cui Funny Games riecheggia ovunque nella fotografia di Dogtooth) a Lars Von Trier, da Aki Kaurismaki ai fratelli Dardenne. Dove questi ultimi, tuttavia, colmano la distanza dai loro personaggi con una regia calda e partecipe, il regista greco gioca tutte le sue carte, dando vita a film che sono veri e propri, allucinanti esperimenti di laboratorio. 

Allucinanti, annichilenti e provocatori: sappiamo tutti, infatti, che il mondo potrebbe essere pieno di famiglie che, forse solo più sottilmente, si comportano come quella di Dogtooth; e sappiamo anche tutti che il modo in cui funzionano le cose nella famiglia di Dogtooth, forse solo più sottilmente, potrebbe essere il modo in cui funzionano le cose ovunque. Solitudini che dividono lo spazio con altre solitudini.

(Dogtooth, Yorgos Lanthimos, 2009, drammatico, 93’)

 

LA CRITICA - VOTO 8/10

Dogtooth, uscito in Italia con undici anni di ritardo, può finalmente essere il miglior modo per approcciarsi al cinema visionario e inquietante di Yorgos Lanthimos: una visione forse ancora un po’ acerba, ma già profondamente originale e innovativa delle potenzialità che lo strumento-regia ha di mostrare i vuoti spaventosi che si allargano nella quotidianità, tra una persona qualsiasi e un’altra persona qualsiasi.