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Libri

Solo ciò che è effimero
è eterno

“Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno”
di Matteo Nucci

di Valentina Cela / 21 settembre

Tra le fila delle coste gialle degli Einaudi Stile Libero ha fatto la sua comparsa a maggio scorso Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, di Matteo Nucci. Giornalista, cultore del mondo greco e scrittore che riscuote da ormai un decennio grande successo di pubblico – sin dall’esordio editoriale con il romanzo Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie, 2010) –, Matteo Nucci inaugura la nuova sezione di saggistica che la casa editrice torinese ha battezzato VS.

Attraverso la selezione di parole-chiave centrali nei più svariati ambiti, dalla letteratura alla musica, dalla storia alla tecnologia, dallo sport alla politica, la nuova collana indaga le contrapposizioni in cui il consesso umano è da sempre, universalmente, portato a scindersi, opporsi, confrontarsi. Nulla meglio del conflitto millenario tra i due modelli umani contrapposti incarnati dagli eroi achei, Achille e Odisseo, allora, per dare avvio a una serie di saggi sulle coppie di opposti attorno alle quali si organizza la nostra esistenza.

Scansando rapidamente l’antitesi da manuale che vuole sia il fiero e umano Ettore, amorevole figlio e padre di famiglia, a fare da contraltare allo spietato Achille, Nucci sostiene che i veri paradigmi psicologici opposti siano incarnati da due uomini che combattevano dalla stessa parte. È Odisseo la reale nemesi di Achille.

In un crescendo di paratassi contrastive, i due achei vengono presentati come un concentrato di atteggiamenti, di caratteristiche assolute che si escludono a vicenda. Violenza contro astuzia, azione contro parola, impulsività contro prudenza, giovinezza contro maturità. Iliade contro Odissea.

Accompagnando i lettori in una sorta di visita guidata ideale nei luoghi cruciali dei due poemi, Nucci li avverte subito che da sempre non corre buon sangue tra l’itacese e il figlio di Teti, ma mantiene sospesa la verità sulla celebre lite «la cui fama arrivava al vasto cielo» all’origine dell’idiosincrasia. Solo Elena, cui Nucci dà voce in un sibillino dialogo con l’amato suocero Priamo nell’atmosfera irreale del palazzo d’Ilio, sembra essere a conoscenza di «come una volta contesero in un lauto banchetto di dèi / con parole violente» il maturo Odisseo e il Pelide Achille.

Un saggio narrato, o forse una narrazione saggistica, La ferocia e l’inganno non è certo un giallo: è una banale incompatibilità di carattere a spiegare il mistero del contenzioso di cui Nucci, mentre cerca di trasmettere al lettore la passione per i poemi epici che hanno fondato la letteratura occidentale, sapiente come un aedo, sfuma e allarga i contorni fino a confonderli.

Grazie alla prosa enfatica di Nucci emerge il lato dolce, dimenticato e tutt’altro che eroico – nel senso da «illusi dell’invincibilità» quali siamo, noi lettori, a causa di Marvel e DC, l’autore – dello sprezzante Achille. Angelo della morte, che vive in una corsa furibonda verso la gloriosa fine che sola rende degnamente compiuta l’esistenza di un uomo della società omerica, Achille sembra quasi disdirsi in più punti della narrazione.

In particolare nel IX libro quando, stanco di combattere una guerra «non sua» e adirato con Agamennone, Achille si ritira dal campo e minaccia di tornarsene in patria, vagheggiando una vita tranquilla accanto alla sposa che Peleo avrà scelto per lui. Viene presto inviata una delegazione di condottieri achei, capeggiata da Odisseo, incaricata di agire con qualsiasi mezzo pur di riavere il proprio miglior guerriero. Achille respinge le scuse ipocrite di Agamennone, ma accoglie con calore Odisseo, Fenice e Aiace. Con spiazzante serenità, il feroce, Achille rinnega il suo cliché e, pizzicando le corde della cetra, tesse un vero e proprio inno al bene più dolce e prezioso, più importante della gloria eterna e dell’onore guerresco. «Nulla per me vale il soffio della vita […] che non si può, per farlo tornare indietro, né rubare / né comprare una volta che abbia varcato la barriera dei denti».

Eppure, una radice condivisa esiste, e deve esistere, sulla scia di quanto teorizzato da Anassimandro sulla differenziazione degli opposti dall’armonia statica dell’àpeiron – atto di nascita del mondo e del divenire –, per cui ogni coppia dei contrari si origina da un principio indifferenziato. La grande somiglianza di Odisseo e Achille giace nel rifuggire il passato. Con una non troppo velata preferenza per Achille, Nucci mostra la complessità di una contrapposizione tra due punti di vista sull’esistenza, due forme di intelligenza: l’una sinuosa, liquida, che anima tutto l’esile corpo di Odisseo, l’altra abbagliante e inflessibile come lo scudo argenteo, forgiato da Efesto, che Achille riceve in dono, da cui scaturiscono due modi, uguali e contrari, di sgusciare dal corso ordinario del tempo. L’uno per vivere al massimo il presente in un momento distensivo, l’altro sempre in corsa verso il futuro sopravvivendo a ogni costo.

Se Odisseo è un navigatore, che, adattandosi alle correnti, schivando i pericoli e sfruttando i venti più propizi, scivola rapidamente sul pelo dell’acqua con la prora diretta a un orizzonte di futuro che ogni giorno si sposta un po’ più in là, Achille è un nuotatore, prestante ma fragile come la sua fatale caviglia, si getta di petto e senza paura tra le onde della vita e della morte, immerso fino al collo nell’istante eterno del presente.

Repetita iuvant, e lo sa bene Matteo Nucci, che da anni si confronta con la divulgazione del pensiero greco classico nei suoi testi a metà tra il saggio e il romanzo, ed è molto apprezzato per la chiarezza cristallina della prosa, volta a una reiterazione a spirale dei concetti portanti. Giocando con l’equilibrio tra semplicità e rigore in cui il filosofo Gabriele Giannantoni, fondamentale nella formazione di Nucci, era un maestro, con Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno l’autore non si smentisce.

Tutto il libro è percorso da un leitmotif che gli è molto caro: l’eroismo della fragilità. Vittoriosi o meno – questo sta alla Fortuna deciderlo –, Achille e Odisseo, e così i tipi umani che impersonano, sono eroici sempre. Entrambi di ascendenze divine e soggetti agli umori altalenanti delle simpatie numinose che sono riusciti o meno ad attirarsi, è la loro umanità a renderli esemplari, invidiabili, straordinari. Il coraggio invincibile è tutto nella scelta, fatica quotidiana che unicamente riempie e realizza il tempo – breve o lungo lo decideranno gli dèi – concesso loro sulla Terra, e che sola neutralizza la paura, naturale e auspicabile, di fallire, di perdere, di morire. «La specularità dei due poemi si realizza all’insegna delle lacrime», scrive Nucci, lacrime copiose in cui si sciolgono, in chiusura di entrambi i poemi, un giovane e un vecchio riconoscendosi, oltre ogni divisione, nelle figure archetipe di padri e figli. È il pianto di Achille e dell’anziano re Priamo, venuto a reclamare al nemico le spoglie di Ettore; è lo sguardo offuscato che si scambiano Odisseo e Laerte nel ritrovarsi dopo vent’anni, finalmente al riparo dalla necessità di nascondersi.

Le lacrime degli eroi, di cui Matteo Nucci aveva già parlato nel saggio omonimo (Einaudi, 2013), tornano in Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno e segnano la linea tra chi è eroe e chi non lo è: unicamente chi è capace di vivere fino in fondo le proprie emozioni, abbracciando la costitutiva fragilità che rende effimere e perciò sacre le azioni dei mortali, può dirsi eroe. Non a caso, il solo personaggio incapace di piangere è Paride.

 

(Matteo Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi Stile Libero, 2020, 232 pp., euro 16, articolo di Valentina Cela)