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Libri

Prokosch: l’incontro inatteso

Woolf, Malaparte, Joyce e altre voci

di Elisa Carrara / 13 febbraio

Sono molti gli scrittori che hanno raccontato il potere del caso sugli uomini, che hanno osservato la fatalità degli eventi piegare persino le vite più tenaci. Frederic Prokosch era uno di loro ma, a differenza di Kafka e Camus, per lui l’imprevedibilità del destino non aveva il sapore amaro di una condanna.

Il suo Voci (Adelphi, prima ed. ita. 1985) è un’opera dal titolo e dall’anima sfuggenti, eppure intensa e carica di lusinghe: non solo, infatti, promette di osservare con malcelata ingordigia le minuzie dei grandi autori del Novecento, ma anche di ricordare agli uomini che la vita è fatta di incontri inattesi e di istanti rivelatori: Voci è, in apparenza, un libro sulla capacità, più o meno fortuita, dell’imbattersi in qualcuno, o in qualcosa.

Il talento di questo scrittore statunitense, classe 1908, – che tradisce nel nome e nello stile origini austriache – sta nell’incontrare le persone in momenti precisi, ma inusuali della loro vita, e immortalarle nel loro trovarsi altrove rispetto ai luoghi consueti; ciò che ricerca non è il realismo dell’immagine, bensì l’autenticità delle cose. L’eterno stato crepuscolare in cui questi personaggi si muovono, agiscono e parlano, ci restituisce l’immeritato e inconsapevole potere della fortuna: gran parte della suggestione di quest’opera si deve all’inevitabile attrazione umana nei confronti della sorte, delle maschere e dell’imprevisto.

Pubblicato per la prima volta nel 1983, questo libro di oniriche memorie permette di entrare in una Wunderkammer insidiosa quanto la vita; è diviso in tre parti, dedicate alla giovinezza, all’arte e alla natura: ogni capitolo rappresenta un incontro, e quasi mai il titolo lascia intuire chi sarà esattamente il protagonista.

Ma la scrittura di Prokosch delinea sempre l’esatto profilo delle cose, dei luoghi, delle persone: Virginia Woolf, rarefatta come la sua prosa; l’America, invenzione kafkiana, in cui tutto è destinato a morire; Peggy Guggenheim e il senso radicato della felicità; il volto sfuggente di Curzio Malaparte sotto il sole di Capri; l’oscura e ancestrale armonia di Karen Blixen; il pallore di T.S. Eliot aggravato dalle ombre di Palazzo Caetani.

E poi il bisogno giovanile di indagare, chiedere, fare domande semplici a persone complicate, ricercare il senso della vita, pungere quando necessario. L’ironia di Prokosch, infatti, non risparmia nessuno: come quando in una libreria, con una certa balbuziente perplessità, chiede a Joyce cosa pensi di Virginia Woolf, o quando riporta l’esilarante conversazione prandiale, al cospetto dei coniugi Mann, sullo stream of consciousness. («Quando dico tutto, non escludo niente, neanche il colore della tappezzeria, gli insetti e la costernazione. Tutte le cose che ti passano per la mente quando cerchi di fare un sonnellino». «Anche le zanzare?» domandò maliziosamente Miss Bascom. «Delle zanzare non sono sicura,» rispose Miss Donnelly).

Leggendo le oltre 300 pagine di Voci ci si imbatte in una Roma talmente intima da chiedersi se quelle parole siano l’inevitabile conseguenza di un incontro autentico, o solo una casuale abilità letteraria: in poche righe si respira il sentore greve del brutale passato della città; ci si perde nei suoi vicoli umidi e infiniti, nei suoi angoli inaspettati, nella sua barocca disarmonia.

Come insegna Edgar Morin nella sua autobiografia I ricordi mi vengono incontro (Raffaello Cortina, 2020), rievocare il passato non è mai un percorso lineare, né tantomeno innocente: occorre ammettere l’importanza dei legami con persone e luoghi,  recuperare dall’oblio cose e momenti che credevamo trascurabili e comprendere che vivere vuol dire accettare l’imprevisto, il caso, la vulnerabilità di fronte all’irragionevolezza degli eventi

La spirito errante, insaziabile e acuto di Frederic Prokosch – così ben descritto da un gigante della letteratura come Gore Vidal, nella raccolta Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000 (Fazi, 2003) – ha spesso a che fare con l’illusione: quando scrisse due dei suoi romanzi (Gli asiatici e I sette in fuga), li ambientò in Asia, senza però mai esserci stato. Ad ogni pagina di Voci, viene da chiedersi, allora, se quegli incontri siano davvero accaduti, se abbia sul serio calpestato i vicoli oscuri di Roma per raggiungere Mario Praz, se sia realmente andato a caccia di farfalle con Nabokov. Poco importa, perché il senso di questo libro, sta nei suoi ingannevoli dettagli: solitario e timido per sua stessa ammissione, Prokosch ci ricorda non solo che la letteratura è quasi sempre un atto di spudorata alterazione della verità, ma soprattutto che ciò che la vita ci insegna si nasconde solo nel silenzio del ricordo.