Flanerí

Cinema

Il pollo è scappato dalla stia

"La tigre bianca" di Ramin Bahrani

di Elisa Scaringi / 7 maggio

I colori della pelle a volte sono così diversi che l’uomo  vi ha costruito sopra il mostro del razzismo. Ne La tigre bianca di Ramin Bahrani spicca il marrone dell’India, e marginalmente il giallo della Cina, ammirata dal protagonista, Balram Halwai, per non essersi sottomessa al tentativo di schiavizzazione da parte dell’Inghilterra.

Sullo sfondo l’eleganza del bianco, che brilla fra le tigri perché è una rarità. Noi occidentali lo abbiamo trasformato nel colore del potere, in questo film diventa la meta da raggiungere. Balram lo dice chiaramente che «il futuro appartiene ai gialli e ai marroni», anche se poi il suo modello diventa appunto una tigre bianca, segno di supremazia proprio per il suo colore albino, un’eccezione in mezzo a un branco di animali gialli e neri – gli stessi di cui crede che domineranno il mondo: «L’India e la Cina sono il domani, ora che i nostri ex padroni, i bianchi, si sono rovinati con la tossicodipendenza, la sodomia e l’abuso di telefonia mobile». La metafora cromatica va oltre il razzismo della pelle, esprimendosi come denuncia alla «più grande democrazia del mondo», appellativo ironico e dissacrante col quale viene definita l’India.

Balram si trova imbrigliato nel sistema delle caste, soffocato da una società corrotta e senza scrupoli: lui stesso viene fermato da bambino, quando tenta di dimostrare la sua intelligenza, ma gli è imposto di portare i soldi a casa dalla famiglia. Come nella stia per i polli l’odore del sangue annienta la capacità di ribellione degli animali, così tra il popolo indiano di un servo ci si può fidare ciecamente: imbrigliato nella gabbia, vi rimane senza opporsi.

Una volta cresciuto si fa strada nel mondo degli autisti, vigile a cogliere qualsiasi opportunità di ascesa. E quando entra nelle grazie di un giovane padrone, Ashok, più umano rispetto alla famiglia che perpetra il proprio potere fatto di sfruttamento e illegalità, scopre i semplici privilegi di una vita lontana dalla povertà: lavarsi i denti, pettinarsi i capelli, profumarsi con il deodorante. Gesti quotidiani che rendono la sua esistenza di ultimo ancora più opprimente; così tanto da costringerlo a commettere un crimine pur di ascendere nella scala sociale. È mascherato da maragià quando si illude di essere entrato nella cerchia ristretta di Ashok; ma l’abbaglio dura soltanto un attimo: si dice che l’abito non faccia il monaco.

La tigre bianca è allora una denuncia inclemente e priva di scrupoli a una società che spinge i poveri a delinquere pur di liberarsi dalle catene di un destino senza scampo. È svanita l’innocente illusione del sogno che si realizza.

Balram se la prende, tra le righe, con The Millionaire per sottolineare che il suo è un dramma dark che non lascia spazio alla speranza. Anche quando raggiunge l’obiettivo rimane quel sapore amaro del riscatto costruito sulla morte e sull’inganno. Approdato al trono del potere, dice di rispettare i suoi dipendenti con l’illusione di un contratto di lavoro, ma si tratta pur sempre di un successo ottenuto con il furto di una borsa di soldi a un uomo aggredito alle spalle. Come canta Vinicio Capossela, «I miei sogni se li è presi l’uomo nero e non li ha resi; l’uomo nero che li tiene e ti trattiene un anno intero. M’han coperto tutto d’oro e poi mi han lasciato solo: solo, solo qui a pensare, a diventare marajà».

Il marcio contro il quale si indigna da povero diventa parte integrante del suo modo di pensare da ricco: l’inclinazione a essere uno schiavo buono e rispettoso, e il dramma psicologico che ne consegue, non lo libera dal male. Essere uscito dal pollaio lo rende speciale rispetto alle sue origini, ma esattamente uguale ai padroni dai quali è fuggito. «L’imprenditore indiano deve essere integerrimo e disonesto, religioso e ateo, subdolo e sincero, tutto allo stesso tempo».

Il costo della libertà non equivale alla sete di giustizia sociale: pur di arrivare a respirare senza il perenne nodo alla gola della schiavitù, è disposto a qualsiasi compromesso o azione malevola. La sua vita non è altro che l’emblema dell’imitazione di massa: impara l’arrivismo dai suoi simili, come assorbe la corruttibilità da chi lo manovra. Jaspers, nel suo Psicopatologia generale, scrive che «L’individuo perde nella folla la padronanza di se stesso. Non perché si entusiasmi da sé, ma perché la folla lo contagia, così si propagano le passioni; le mode e le usanze hanno la loro origine in questa imitazione […]. Noi giudichiamo, valutiamo, prendiamo posizione, riprendendo semplicemente, contro la volontà e senza saperlo, i giudizi e le valutazioni di altri. Non abbiamo affatto valutato, giudicato, preso posizione da noi, e tuttavia abbiamo il sentimento della presa di posizione personale. Questa adozione dei giudizi altrui senza un giudizio proprio, si chiama suggestione del giudizio».

La tigre bianca è dunque un film molto interessante, ricco di spunti per cercare di capire meglio l’India di oggi: «la nostra nazione manca di acqua potabile, elettricità, fognature, trasporti pubblici, senso dell’igiene, disciplina, cortesia e puntualità, la più grande democrazia del mondo a livello demografico, ma non di imprenditori».

Dispiace solo che la tensione della prima parte del film sia scemata nel finale: chissà, magari avrebbe potuto tentare di affacciarsi sulla cima di Parasite, esempio perfettamente riuscito di commedia dalle tinte nere che racconta il dramma del divario fra ricchi e poveri, oppure superare in qualità The Millionaire, l’alter ego indiano a cui Balram risponde per le rime. Lui che ascende dalla casta dei Shudra, i servitori identificati con il colore nero, a quella dei Vaishya, gli artigiani dalle tinte giallo e bronzo. Purtroppo il bianco degli intellettuali Brahmani rimane un miraggio. «Se anche dovessero sbattermi in prigione, non mi pentirei mai di ciò che ho fatto; ne vale la pena se ti fa assaporare, anche solo per un giorno, un’ora o un minuto, cosa significhi non essere un servo».

(La tigre bianca, di Ramin Bahrani, 2021, drammatico, 125’)

LA CRITICA - VOTO 8/10

La tigre bianca è un film molto interessante, ricco di spunti per cercare di capire meglio l’India di oggi, ma qualitativamente non all’altezza di altri successi indiani come The Millionaire. Pur creando un’alta aspettativa, il regista Ramin Bahrani si perde nel racconto, perdendo l’occasione di raggiungere Parasite, il film coreano che ha trionfato lo scorso anno agli Oscar.