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Cinema

Scarpetta: il padre di una stirpe

Su “Qui rido io” di Mario Martone

di Elisa Scaringi / 17 settembre

Qui rido io è un film metateatrale: raccontando un breve periodo della vita di Eduardo Scarpetta, Mario Martone coglie l’occasione per illuminare la storia del nostro teatro. Una commedia nella commedia, che intreccia i diversi piani: vita privata e rappresentazione scenica, contesto culturale e scandalo sociale. «Il film è scritto come una commedia, – spiega il regista – impostato e diretto per far sì che le scene fossero tutti palcoscenici, perché dovunque si mette in scena una recita».

Sullo sfondo di un’Italia di fine Ottocento, Scarpetta si impone per la sua originalità di commediografo: dopo la gavetta nei panni di Pulcinella, ne trasforma le fattezze e il nome, dando a don Felice Sciosciammocca i tratti della maschera moderna. L’attore che indossa un personaggio dai lineamenti fissi e statici diventa il mattatore del palcoscenico. Scarpetta rimarca il lato umano delle sue storie facendole aderire alla realtà del pubblico. Con don Felice è evidente la “morte” di Pulcinella, e il passaggio all’attore-autore che muta nei testi, al cambiare del contesto sociale e della nuova classe di cui è espressione: non più la nobiltà sbeffeggiata dal popolo, ma la piccola borghesia della maschera di Sciosciammocca. La stessa che poi indosserà Totò nei tre adattamenti di Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954) e Il medico dei pazzi (1954).

Scarpetta è il genio comico che anticipa la contemporaneità, portando in scena una rivoluzione nel teatro napoletano, e italiano in generale. Per Martone è una figura prismatica, «caso estremo di essere umano. La cosa che mi affascinava di lui era questo aspetto primordiale, quasi mitologico, questo padre-caos da cui viene generato tanto talento, se non addirittura del genio, come nel caso del figlio Eduardo De Filippo».

Certamente, l’harem in cui trasformò la sua casa non può essere tenuto in minor conto nel racconto biografico di un uomo come Scarpetta, che non si vergognò di aprire il suo palcoscenico ai figli illegittimi, divenendo il capostipite di una vera e propria dinastia di artisti. Il primogenito Vincenzo, attore, musicista e autore teatrale, nato dal matrimonio con Rosa De Filippo; Maria, attrice e autrice (famosa come Mascaria), nata da una relazione con Francesca Giannetti e adottata poi dalla moglie di Scarpetta; Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, attori e autori teatrali, figli illegittimi avuti dalla nipote di sua moglie, Luisa De Filippo; Eduardo, attore e commediografo noto con il cognome Passarelli, e Pasquale De Filippo, attore caratterista, frutto di una relazione extra coniugale con la sorellastra della moglie, Anna, da cui sarebbe nato anche Ernesto Murolo (poeta, drammaturgo e padre del celebre cantautore Roberto), adottato da Vincenzo Murolo e Maria Palumbo. L’unico figlio che non si dedica al teatro è Domenico, riconosciuto da Scarpetta, ma frutto di una relazione precedente al matrimonio della moglie Rosa con il re Vittorio Emanuele II.

«C’è della follia nel fatto che Scarpetta faccia figli con la moglie, con la sorella e con la nipote della moglie, – spiega Martone – è pur vero che compatta questa famiglia, considerando che ha fatto studiare le figlie femmine come i figli maschi. C’è tanto dolore, tanta compassione ma anche tanto orgoglio».

Il palcoscenico è un tutt’uno con la vita di questa grande famiglia allargata, dove anche i bambini (o meglio i tre De Filippo) sono coinvolti nelle commedie, passandosi il ruolo del piccolo Peppiniello, che, paradossalmente, ha cucita addosso la battuta “Vincenzo m’è pate a me”, implicitamente traducibile con “Eduardo è mio padre”. Scarpetta, infatti, si fa chiamare zio dai figli non riconosciuti ufficialmente, ma non per questo ne disdegna la presenza; anzi, andando oltre il cognome anagrafico si fa padre spirituale di una carovana di commedianti, tutti figli putativi di un rivoluzionario dell’arte scenica.

Anche l’episodio della denuncia di plagio fattagli recapitare da D’Annunzio, dopo aver parodiato al maschile La figlia di Iorio, diventa occasione di “spettacolo” per Scarpetta. La scena si sposta nell’aula di tribunale, dove si disputa una guerra di parole fra scuole di pensiero: quella più pacata guidata da Salvatore Di Giacomo, e quella disaccrante dello stretto Scarpetta, difeso da Benedetto Croce nel suo essere un giullare del teatro dell’epoca. Se gli artisti suoi conterranei vedono in lui un malfattore, difendendo un poeta come D’Annunzio (che forse non era poi meno strano del “loro” Eduardo), Scarpetta difende la sua arte di commediante, nato per fare il giullare dissacrante. Tolta la maschera di Pulcinella, ci mette la faccia nel raccontare con leggerezza la vita dei napoletani. La sua vocazione è portare la risata e il divertimento a teatro, lasciando alle mura domestiche il compito di nascondere il segreto di un uomo che accoglie i suoi ospiti con la scritta “qui rido io”, ma che in fondo non ride mai nei panni di se stesso. Anzi, è un uomo profondamente solo, capace di divertirsi solo nel buio della notte, quando scrive le sue battute, beandosi delle risate che sta mettendo in scena.

(Qui rido io, di Mario Martone, 2021, drammatico, 133’)

LA CRITICA - VOTO 9/10

Sullo sfondo di un’Italia di fine Ottocento Qui rido io è un commedia dove tutti i palcoscenici sono una recita, e la vita reale non è altro che una scena nella trama più ampia di una carovana di commedianti. La storia è in fondo quella di un padre che fa ridere di mestiere, e di tanti figli che non possono far altro che seguirlo.