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Libri

L’età del futilitarismo

“Vite rubate” di Neil Vallelly

di Marco Di Geronimo / 21 dicembre

«Le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda», osservava John Maynard Keynes. «Gli uomini pratici, che si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». È vero: spesso si scambiano per verità assolute visioni politiche del tutto opinabili, tanto più di parte quanto più si presentano come necessarie, naturali, incontrovertibili. È quel che accade oggi con l’ideologia dell’utile, della quale siamo tutti schiavi. Un giovane economista neozelandese, Neil Vallelly, ha dedicato all’argomento un saggio illuminante.

Il suo libro nasce per far discutere: un feroce attacco all’egemonia neoliberale, accusata di devastare l’esistenza delle persone in nome del nulla. Un volume agile, dato alle stampe in Italia da Atlantide con il titolo di Vite rubate, che ricostruisce la lunga deriva del pensiero occidentale, così ossessionato dall’inseguire ciò che è utile da perdere la cognizione di cosa lo è davvero.

Dopotutto, argomenta l’autore, «l’utilità non è qualcosa che esiste in natura; non c’è un concetto neutro e oggettivo. L’utilità è sempre un prodotto delle relazioni umane e delle strutture di potere all’interno di una società». È un concetto, quindi, in cui si confondono i confini tra politico, economico, sociale e filosofico. Per questo occorre sfidare il culto di questa parola-chiave, architrave di una filosofia illusoria. In tutto il saggio – che lo stesso Vallelly definisce «una critica alla vita quotidiana nel neoliberalismo» – ritorna con insistenza l’idea che la nostra società non insegua l’utile, bensì il futile: di qui il titolo originale Futilitarism.

La critica del presente, portata avanti con una prosa limpida e appassionata, non si arresta al sistema economico, ma investe i limiti stessi del pensiero contemporaneo. Vallelly se la prende direttamente con Jeremy Bentham, filosofo inglese unanimemente considerato il precursore dell’utilitarismo, accusandolo di essere «responsabile per aver spianato la strada alla prioritizzazione delle esperienze individuali di utilità rispetto a quelle collettive o sociali». Insomma: prima l’individuo, poi la società. Ammesso che vi sia una società, visto che due secoli dopo Margaret Thatcher coniò per la nuova ideologia neoliberale il suo slogan più agghiacciante: «La società non esiste».

In poche parole, Vallelly mette in questione nientemeno che l’attuale sistema di valori della politica, cultura e società mondiale. Il criterio economico, la necessità di fare soldi, di misurare il successo e la felicità: paccottiglia che già Keynes in persona aveva contestato, e che anziché liberare l’individuo lo rende schiavo, bloccato in comunità tossiche e sull’orlo del baratro. Un sistema perverso, che l’autore denuncia nelle sue terribili ricadute antropologiche, per la sua tendenza ad avvelenare tutte le sfere della vita quotidiana e di comunità.

Corredato da un ricco apparato bibliografico, Vite rubate è anche un affresco particolareggiato dell’ipersfruttamento del lavoratore in un nuovo millennio nel quale ormai trionfa l’homo futilitus, più che l’homo oeconomicus. Non più soggetto – la persona cara anche al cristianesimo sociale di un padre costituente come Dossetti – ma progetto, la “Io S.p.A.” (un concetto inventato da Tom Peters), da promuovere sul mercato come un prodotto qualsiasi. Un declino della società e dell’uomo dal chiaro significato politico: «Il vero scopo del brand chiamato Tu non è quello di consentire l’emancipazione personale di massa» come suggerisce Peters, «ma di oscurare il ripristino del potere di classe che sta al cuore del neoliberalismo».

Ecco perché Vite rubate. Il capitalismo rapina le persone della propria esistenza: costruisce una «comunità paranoica», nella quale ognuno è ossessionato dall’autopromozione anche nei rapporti personali, e in cui lo sfruttamento, l’ingiustizia sociale e gli altri danni del sistema vengono mascherati da fallimenti personali, la cui responsabilità è attribuita all’individuo che, per definizione, non si è impegnato abbastanza.

Per Vallelly il passaggio all’inciviltà è connaturato al capitalismo. Quando l’uomo diventa homo oeconomicus lascia dietro di sé la figura dell’homo politicus, di persona che esiste e vive in società. A essere archiviato è «l’umanesimo stesso». Non a caso la società evolve verso la moltiplicazione dei «lavori di merda» (i «bullshit jobs» di cui parlava il grande antropologo radicale David Graeber), che non sono davvero funzionali a qualcosa, ma servono soltanto a «giustificare le carriere di chi lo svolge»: un inno alla «fusione di inutilità economica e sacrificio esistenziale», una bancarotta emotiva eletta a sistema, che disinnesca il conflitto distributivo e spezza il desiderio di riscatto degli sfruttati.

Sono «lavori di merda» tutti quelli dei quali si può fare a meno: posti amministrativi in settori come il telemarketing, i servizi finanziari, le relazioni pubbliche. E non a caso la pandemia di Covid, aprendo ampi spazi di riflessione nella vita di ognuno di noi, ha innescato prima il fenomeno delle Grandi dimissioni (migliaia di persone disposte a licenziarsi pur di non tornare a un lavoro avvilente e sfibrante) e poi, oggi, al quiet quitting (cioè lavorare, sì, ma il meno possibile).

Come sempre accade in queste ricostruzioni, non manca la critica a chi doveva teoricamente contrastare i fenomeni neoliberali e invece si è abbandonato alla corrente. Ampia e approfondita la critica alle amministrazioni Clinton e Obama (ma anche ai Governi Blair), colpevoli di aver abdicato al futilitarismo imperante, segnalandosi per un mix di classismo e razzismo a prima vista invisibili, ma concreti nel ridurre diritti e prospettive di vita per milioni di persone. Era l’epoca in cui si voleva «porre fine al welfare per come lo conosciamo», transitare dalle politiche di solidarietà pubblica all’assunzione personale di responsabilità (che nei fatti significa scarica sui più deboli tutti i costi e le conseguenze delle fragilità sociali, economiche e psicologiche).

Il culto dell’opportunità, lo svuotamento di senso del linguaggio (un fenomeno che Vallely chiama «semiocapitalismo»), l’abitudine a percepire la drammaticità delle crisi come una normalità, l’apatia che investe gli elettorati delusi dai leader che eleggono: tutto cospira verso una polarizzazione infantilizzante del dibattito pubblico in cui ci si urla addosso. La nuova lotta delle idee a colpi di tweet velenosi si svolge sull’asse tra l’establishment, che difende un sistema alienante, e i nuovi partiti populisti che promettono false vie di fuga. Siamo allo smantellamento della dinamica democratica, che invece si basa sul pensiero, sul dialogo e sul negoziato.

Chi vuole reagire cade spesso nella trappola della finzione politica: «attività di piccola scala che [gli elettori-cittadini] percepiscono come politiche, ma che invece rafforzano lo status quo». È la militanza del consumatore-attivista dedito al buy-cottaggio, in ossequio al facile slogan del «Vota col portafogli!» col quale ci si risparmia l’organizzazione o partecipazione a movimenti di massa: in definitiva, il nostro è un mondo in cui ogni diritto umano finisce per ridursi al «diritto di cavarsela da soli in un ordine mondiale ultracompetitivo». Una sorta di nuovo homo homini lupus onnipervasivo: al lavoro, a casa, a scuola, tutti a caccia di nuove opportunità, nuovi titoli, nuovi investimenti su sé stessi, e quindi tutti più soli, più insicuri, più disperati.

Lo stesso discorso può essere applicato anche al clima, forse la più fondamentale lotta politica del tempo presente: è chiaro a tutti che la raccolta differenziata non basta, che servono azioni collettive per intervenire sui grandi players dell’energia e dell’industria. Ma il tipico intellettuale contemporaneo respinge di fatto lo slogan “Socialismo o estinzione” e insiste su irrilevanti comportamenti individuali. E «se la scelta è tra salvare il soggetto individuale o il clima, la razionalità neoliberale fa sì che il primo avrà sempre la meglio». Piuttosto che salvarci tutti, meglio estinguerci uno alla volta.

Il libro di Vallelly è un quadro a tinte fosche, che descrive la nostra società futilitarista e la sua folle corsa verso la produzione di beni e di esistenze inutili. Un veemente j’accuse contro un modello sociale imperniato sull’«individualismo esasperato» e la sua tendenza ad annullare le esistenze delle persone bruciandone le reali possibilità di vita. Una prospettiva nuova sulla miseria della società neoliberale tanto ben riuscita quanto poco convincente è invece la pur suggestiva promessa di riscatto e di emancipazione del «futilitariato». E non perché questa promessa venga esposta in modo frettoloso nelle conclusioni del libro – quasi un coup de théatre per non scoraggiare il lettore-attivista. Quanto per la pervasività del neoliberalismo che Vallelly mostra nelle pagine precedenti in tutta la sua forza: una presenza inquietante, di cui l’autore ha il merito di svelare le ombre e le trappole che finora il lettore aveva soltanto intuito.

 

(Neil Vallelly, Vite Rubate. Dal sogno capitalista al futilitarismo, trad. di Thomas Fazi, Atlantide, 2022, 240 pp., 18,50 euro. Articolo di Marco Di Geronimo)