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Libri

L’ebraismo fra assimilazione e revisionismo

Su “I Netanyahu” di Joshua Cohen

di Alberto Paolo Palumbo / 22 febbraio

Quando si parla di ebraismo, non si intende soltanto la religione, ma l’identità ebraica in tutta la sua complessità. Chi si può definire ebreo? In questo senso tante sono le riflessioni che si possono fare. L’identità ebraica, infatti, risulta essere più complessa di quello che effettivamente è, come spiega nel seguente brano di Operazione Shylock Philip Roth:

«La ragione è che la divisione non è solo tra ebreo ed ebreo: è all’interno del singolo ebreo. Esiste, in tutto il mondo, una personalità più multiforme? Non dico ‘divisa’. Divisa è niente. […] Devo spiegare l’ebreo come una massa di tremila anni di frammenti speculari a chi ha fatto fortuna come il principale ebreologo della letteratura internazionale? C’è da meravigliarsi se l’ebreo litiga sempre? È una lite personificata!»

Secondo Roth, l’identità ebraica altro non è che un costrutto culturale multiforme che spesso porta a dissidi interiori nell’ebreo stesso. L’autore parla a questo proposito di “inadeguatezza” come “stile degli ebrei”, consistente o nella totale assimilazione dell’ebreo nella sua comunità di arrivo o nell’estremizzazione della propria identità. Espressione di questa inadeguatezza sono due tra i più famosi personaggi della narrativa rothiana: Seymour Levov “Lo Svedese” e Alex Portnoy. C’è chi, ad esempio, decide di assimilarsi alla cultura del paese ospite rinunciando al proprio ebraismo come il primo, e chi invece, come il secondo, decide di vivere da ebreo con le proprie tradizioni. In ogni caso, l’ebreo risulta sempre un outsider: per la sua stessa comunità e per quella di approdo, in quanto incapace di venire a patti col proprio essere.

Una dicotomia del genere la riprende Joshua Cohen con I Netanyahu, vincitore dell’ultima edizione del Premio Pulitzer per la narrativa e pubblicato in italiano da Codice Edizioni. Il romanzo racconta la storia di Ruben Blum, professore di Storia dell’economia americana specializzato negli studi sulla tassazione alla Corbin University, un’università immaginaria nello stato di New York. Blum viene incaricato dal suo capo George Moss di far parte della commissione di valutazione di un nuovo candidato per la cattedra di Storia europea: Ben-Zion Netanyahu, specializzato nello studio del tardo medioevo europeo, in particolare nel periodo dell’Inquisizione. L’incontro con questo potenziale professore porterà però Ruben Blum a fare i conti con la propria identità ebraica:

«Al mio bris, fui chiamato Ruvn ben Alter, “Ruvn il figlio di Alter”. Se avessi avuto un figlio, sarebbe stato ben Ruvn, il figlio di Ruvn. Ben-Zion era il figlio di Zion: il mio ebraico da barmitzvah almeno a quello ci arrivava, anche se si fermava lì. Stavo per conoscere il figlio di Sion».

Per comprendere al meglio questo romanzo, bisogna concentrarsi su due dettagli; il sottotitolo, ovvero Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre, e la dedica in esergo: «In memoria di Harold Bloom». Come spiega nei ringraziamenti, che possiamo considerare una postfazione vera e propria, Joshua Cohen ha di fatto trasposto un aneddoto raccontatogli dal celebre critico letterario Harold Bloom, che alla Yale University, dove insegnò, incontrò Benzion Netanyahu, il padre di quello che poi diventerà il premier israeliano più longevo della storia, Benjamin “Bibi” Netanyahu.

L’autore spiega inoltre di aver volutamente trasposto in maniera letteraria l’aneddoto di Bloom, in quanto non gli interessava scrivere un romanzo biografico sul padre del Canone occidentale:

«[…] in seguito alla sua morte [di Harold Bloom], nel 2019, ho iniziato a scriverne [dell’aneddoto], e facendolo mi sono ritrovato a inventare un certo numero di dettagli che lui aveva tralasciato e, per via delle circostanze che sto per spiegare, a romanzarne qualche altro. Va da sé che “Ruben Blum”, il prosaico professore di storia economica americana, non vuole essere un ritratto di Harold Bloom, il professore di letteratura inglese più-distante-del-prosaico, così come “Edith” non vuole essere un ritratto di Jeanne, la moglie di Harold altamente acculturata, ingegnosa e sagace, che ha confermato il resoconto della visita di Netanyahu fatto da suo marito e ne ha cortesemente benedetto il mio uso […] e dunque presto i “Blum” hanno preso una vita tutta loro, persino quando i Netanyahu sono rimasti i Netanyahu».

Così Harold Bloom è diventato Ruben Blum, non insegna a Yale Letteratura inglese ma Storia economica americana nell’università immaginaria di Corbin, mentre sua moglie Jeanne è divenuta Edith; Judith, invece, non è la vera figlia di Harold e Jeanne Bloom, ma una parente mandata da loro per stare lontana dal Bronx. Chi resta reale, invece, sono i Netanyahu: Benzion con sua moglie Tzila e i figli Yonatan – che nella realtà morirà nel 1976 a Entebbe, in Uganda, durante un’operazione per liberare degli ebrei presi in ostaggio dai terroristi, diventando così un eroe nazionale di Israele –, Benyamin, che qui ha un ruolo marginale, e Iddo. Riguardo ai nomi dei Netanyahu, quello di Benzion viene scritto con il trattino fra “Ben” e “Zion”, come a rimarcare l’estremizzazione della diaspora e dell’identità ebraica nel patriarca dei Netanyahu, che, come spiega Cohen, ha poi contribuito a plasmare Benyamin Netanyahu come uomo politico:

«Bibi Melech Yisroel, lo chiamavano i suoi sostenitori: “Bibi, re di Israele”. Il suo regno, segnato dalla costruzione di muri e insediamenti, e dalla normalizzazione dell’occupazione e della violenza di Stato contro i palestinesi, rappresenta il trionfo finale della visione revisionista, un tempo caduta in disgrazia, promulgata da suo padre».

L’autore racconta il tutto facendo uso del tipico umorismo yiddish à la Woody Allen e Philip Roth. I Blum e i Netanyahu, infatti, ci vengono presentati non solo in momenti più seri come la vita accademica, ma anche in quelli di convivialità come le cene in famiglia e le feste, mettendo in evidenza – lo recita il sottotitolo – quanto le loro siano sì vite trascurabili – e i loro siano sì episodi minori – ma comunque incisive nella Storia.

Un altro aspetto da non trascurare è la scelta di raccontare questa storia nella forma del campus novel. In questo senso, I Netanyahu è molto simile a La macchia umana di Philip Roth. Come nella storia di Coleman Silk, costretto a ritirarsi dall’Athena College per aver definito “fantasmi” due studenti afroamericani che nemmeno conosceva – in inglese Roth adopera il termine spook, usato nello slang per indicare gli afroamericani –, e vittima dell’antisemitismo sistemico della sua stessa università, anche Ben-Zion fa esperienza di una certa discriminazione nei confronti degli ebrei insita nel sistema universitario americano e, in misura più grande, nella società americana in generale.

L’eco di Philip Roth e dei suoi personaggi – che sia Coleman Silk, Seymour Levov o Alex Portnoy – è molto presente nel romanzo di Cohen, come si può notare dalla storia di Ruben Blum, un ebreo da sempre considerato outsider e costretto a essere come gli altri per non ritrovarsi sempre sotto i riflettori:

«In sostanza, per quasi tutta la vita – a dire il vero fino a poco tempo fa, quando una valanga di traumi piede-gamba-anca mi ha costretto a barattare la mobilità per la mortalità –, non ho mai tratto forza dalle mie origini e ho colto tutte le occasioni possibili per ignorarle, quando non potevo negarle. Sono venuto al mondo con una pelle non del tutto bianca, ma mentre crescevo si è indurita. […] In quanto unica famiglia ebrea a risiedere nel nostro piccolo villaggio sul lato sbagliato dei monti Catskill nel milieu del dopoguerra, noi Blum (io, mia moglie Edith e mia figlia Judith) dovevamo confrontarci con vessazioni continue. […] L’aspetto con cui io e Edith dovevamo confrontarci più spesso in quanto primi ebrei di Corbindale era la continua condiscendenza a bassa intensità: la sensazione che dovessimo sentirci fortunati anche solo per essere lì, per essere stati ammessi, per aver avuto un lascia passare. Ci parlavano dietro, ci parlavano sopra; ci si “degnava” di darci retta; venivamo trattati con aria di superiorità, studiati. La nostra presenza era un insulto per alcuni e una curiosità per altri».

Già in queste righe si può intuire il motivo per cui Ruben Blum ha sempre cercato di fuggire dalle sue radici, un aspetto rimarcato per esempio nella discussione con i genitori di Edith sull’assunzione di Ben-Zion e sul rischio di sfuggire o meno all’accusa di favoritismo verso gli ebrei, ma anche nel momento della correzione dei compiti di Judith: «Più tempo dedicavo a quelle correzioni, più potevo stare alla larga dagli ebrei, da ciò che – o meglio da chi – mi girava sul cuore». Quello di Blum è lo stesso sentimento di vergogna provato da Seymour lo Svedese, che lo porta a privarsi della sua identità ebraica e a diventare americano a tutti gli effetti perché, parafrasando Roth, la pastorale americana dura ventiquattr’ore: una convivenza fra confessioni religiose diverse non è pienamente possibile, e in questo senso la terra promessa americana non è che un sogno mai realizzato. Questo nascondere le proprie radici da parte di Blum è evidente soprattutto nella sua attività di storico, ma anche in quella di revisore degli elaborati di Ben-Zion:

«Era come se, facendo così, stessi tenendo a bada la mia, di storia; come se stessi lasciando fuori il passato, le vecchie voci rauche e perdute da grilli parlanti dei rabbini nello scantinato, tantissimi anni prima, che stavano di nuovo mormorando attraverso l’infelicità e la rigidità di un altro straniero che si era avvalso pure lui dell’inglese del dizionario per mettermi in guardia contro l’autocompiacimento… per mettermi in guardia contro l’America».

L’arrivo di Ben-Zion fa nascere in Blum la consapevolezza di essere vittima dell’antisemitismo sistemico della Corbin University – che costringe Ben-Zion a tenere seminari sulla Bibbia – e dell’America nel suo complesso. Nella lettera che il professore Peretz Levavi della Hebrew University di Gerusalemme indirizza a Blum, si legge che Ben-Zion «ha mostrato una tendenza a politicizzare il passato ebraico, trasformando i suoi traumi in propaganda». Esempio di questa tendenza alla politicizzazione è lo studio sull’Inquisizione nella penisola iberica, che secondo Netanyahu aveva lo scopo non tanto di convertire gli ebrei al cattolicesimo, quanto di colpevolizzare quelli già convertiti, come se non si smettesse mai di essere ebrei. Questa rivisitazione dell’Inquisizione risulta essere, secondo Levavi, il frutto del trauma subito dal padre di Ben-Zion, Nathan Mileikowsky, sfuggito al pogrom del 1879; questo, sotto l’influenza sionista del yeshivah (istituzione educativa ebraica) di Volozhin, cambiò nome in Netanyahu (mandato da Dio) per investirsi del ruolo di traghettatore dei sionisti verso la Terra Promessa dove diventare ebrei liberamente:

«La storia del sionismo è così difficile da raccontare, e tutti i tentativi si trasformano presto in metafisica, diventando evanescenti. Socialisti, comunisti, anarchici, sionisti: provi a pensare a quante identità gli ebrei hanno dovuto assumere nell’era moderna solo per poter essere quel che erano, per poter essere di nuovo ebrei… Ma questa volta, per essere ebrei liberamente…»

L’estremizzazione delle idee e dell’identità di Ben-Zion, e di conseguenza anche il suo revisionismo storico, sono dovuti alla sua reazione verso l’atteggiamento dell’America e della Chiesa nei confronti dell’identità ebraica, considerata una categoria da estirpare per meglio dominare gli altri popoli:

«Oggi, in America, sospetto che revisionismo significhi quasi la stessa cosa, ma dentro il contesto di un’altra struttura di potere: il revisionismo è l’insistenza a scrivere la storia in un mondo che destabilizza ciò che si definisce classe dirigente e interferisce con il funzionamento del governo e degli affari. Ammetto che questo mutamento di significato mi ispira: una parola che in origine significava minare una dottrina radicale ai fini del compromesso è passata a essere una minaccia pericolosa all’ordine dominante. Ma non è forse quello che succede sempre quando si fanno dei compromessi? Si perde, la causa è persa, e la tua debolezza ti viene rigirata contro. Sotto un altro aspetto, la versatilità della parola revisionismo, la sua applicabilità a qualsiasi fine politico, mi ricorda l’uso e l’abuso di un’altra parola: ebreo».

Alla luce di quanto detto da Ben-Zion, Blum comprenderà di essere un falso, un costume in carne e ossa, una persona che per vivere come americano ha dovuto estirpare la sua vecchia identità, perché la società americana ha preteso questo per meglio assoggettarlo alla sua influenza. Quanto a Netanyahu, la sua presunta follia e il suo fanatismo paradossalmente risultano essere una sconfitta per gli americani, in quanto cercare di eliminare confessioni diverse dalla propria porta sempre alla loro estremizzazione, col rischio di fomentare ancora di più le divisioni: il fallimento, cioè, della pastorale americana.

Quello che racconta Joshua Cohen in I Netanyahu diventa, insomma, un episodio minore che fa da specchio a un intero mondo: non solo quello universitario statunitense, ma anche quello globale che travalica i confini americani. Trasponendo letterariamente un aneddoto personale di Harold Bloom, Cohen ci racconta ciò che ancora oggi è visibile: il persistente fanatismo di certe confessioni religiose dovuto alla discriminazione sistemica, che diventa un modo per liberarsi dalle costrizioni sociali e per non rinunciare alla propria identità.

 

(Joshua Cohen, I Netanyahu, traduzione di Claudia Durastanti, Codice Edizioni, 2022, 271 pp., euro 20, articolo di Alberto Paolo Palumbo)