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Antonia Pozzi, poesia del silenzio

di Chiara Fratantonio / 1 giugno

«Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue».

Danneggiata dagli interventi correttivi del padre e negata per lungo tempo alle stampe, la voce di Antonia Pozzi ha rischiato di rimanere costretta nelle valli della montuosa provincia di Lecco e di essere lì dimenticata.
Sono stati Eugenio Montale, appassionato scopritore di voci celate, e Vittorio Sereni, compagno di studi e amico di Antonia, a insistere affinché fosse pubblicata nel 1946 per Mondadori una prima edizione delle poesie seguita, nel 1988, dall’opera completa nella versione originale.
Il centenario della nascita della poetessa lombarda, caduto lo scorso 13 Febbraio, ha dato inoltre il via a una serie di iniziative e manifestazioni e a un conseguente, quanto atteso, aumento dell'interesse e dell'apprezzamento del pubblico; non è difficile, infatti, lasciarsi affascinare dalla leggerezza della parola pozziana e da quel sorriso gentile che straccia la carta fotografica e arriva dritto al cuore, portando con sé l'amaro di un dramma esistenziale a cui Antonia si arrese all'età di 26 anni, scrivendo l'epilogo di una vita apparentemente serena.

Nata a Milano in una colta famiglia alto-borghese, Antonia Pozzi frequenta il liceo classico e la facoltà di lettere e filosofia presso l'università statale di Milano, dove conosce e stringe sinceri rapporti di amicizia con Vittorio Sereni, Remo Cantoni e Dino Formaggio. Legge Rilke, Pound, Valéry, Eliot e i grandi del suo tempo, Ungaretti e Montale tra tutti. 
La famiglia possedeva una seconda casa a Pasturo, un piccolo paesino in mezzo alle montagne: la casa dove Antonia trascorre da bambina vacanze gioiose con amici e parenti; la casa dove Antonia ritorna per sfuggire al mondo. Più volte, in silenzio, da sola.
«Sto tanto bene qui: è la casa della mia prima infanzia. E in questa stanza ho incominciato a meditare e a soffrire», scrive nel 1938 in una lettera a Tullio Gadenz.

Appena adolescente, Antonia smette di guardare le montagne dalla finestra del suo studiolo e impara a scalarle, immortalando con la sua macchina fotografica le immagini più suggestive e trovando nell’aria fresca e rarefatta delle cime l’ispirazione per i suoi versi migliori.
La montagna, che si leva salvifica su una terra nuda e pensosa («Lei sola, in alto, si tende / ad un muto colloquio col sole»,“Esempi”, 1931), è una madre che accoglie l’anima di Antonia nel suo grembo e la ristora («Tu sana, venata di sole, / porti sul grembo / il cielo tutto azzurro – / chiami voli d’uccelli / alle tue mani / colme di vento- / Bontà / a cui beve il suo canto / il cuore / e di cantare non può più finire – / perché sei la sorgente che rifà / il sorso bevuto / ed il suo fondo / non si tocca mai»,“Bontà inesausta”, 1933); è una porta che si apre davanti ai suoi occhi tenuti sempre bassi e che le permette di entrare in una dimensione altra in cui l’io deve fare i conti solo con la bellezza di un paesaggio incontaminato.

Soltanto il contatto con la natura e il “farsi natura” dà all'uomo la possibilità di entrare nel profondo della vita e cogliere l’essenza di tutto ciò che non è natura; le forme più silenti e maestose del reale custodiscono, per Antonia, le risposte per l'interpretazione del mondo.
La natura si incarna, si fa compagna e sorella e lo spirito umano, di contro, si immerge e perde in essa.
(«Sorelle, a voi non dispiace / ch’io segua anche stasera / la vostra via? […] così dolce serrarsi / contro il cuore il silenzio / come la vita più fonda / solo ascoltando le vostre anime andare – / solo rubando / con gli occhi fissi / l’anima delle cose –»“Sorelle, a voi non dispiace…”, 1933).
Il tempo potrebbe fermarsi e l’anima godrebbe in eterno della sua ritrovata leggerezza in un bagno di luce montana, ma cala la sera. La donna, nell’ombra, si riscopre umana, mortale e fragile. E in quel momento la porta si chiude. «E l’ultimo giorno / – io lo so – / l’ultimo giorno / quando un’unica lama di luce / pioverà dall’estremo spiraglio / dentro la tenebra, / allora sarà l’onda mostruosa, / l’urto tremendo, / l’urlo mortale / delle parole non nate / verso l’ultimo sogno di sole. / E poi, / dietro la porta per sempre chiusa, / sarà la notte intera / la frescura, / il silenzio. / E poi, / con le labbra serrate, / con gli occhi aperti / sull’arcano cielo dell’ombra, / sarà / – tu lo sai – / la pace»(“La porta che si chiude”, 1931).

Poesia del silenzio perché taciuta, ma anche perché nasce dal silenzio, nel silenzio mette radici e fa del silenzio il suo nutrimento e lo strumento che può limare i suoi contorni e svuotarla fino a renderla essenziale, pura.
Non di rado i versi sono formati soltanto da una parola, isolata, per creare un vuoto e sottolineare l’irrompere di immagini forti e simbolicamente densissime («Anima, sii come il pino: […] non cede, / nemmeno se la neve, / gravandolo con tutto il peso / del suo freddo candore, / immolla le fronde e le trae / violentemente / verso il nero suolo»“Esempi”, 1931) o per alleggerire ulteriormente un percorso che vuole condurre, al termine del componimento, a un’elevazione verso l’alto e verso la quiete («Sotto gli ulivi vorrei / in un mattino fresco / salire / e salutare / di là dalle lievi / chiome d’argento / il pallore del sole ed il volo / delle nuvole lente / verso il mare»“Sogno sul colle”, 1933).
Frequentissimo l'uso dello spazio bianco e del trattino, già tanto caro alla Dickinson, che segna graficamente le lunghe pause della scalata, che interrompe il fluire dei respiri di Antonia sulla roccia e del lettore sulla pagina («La guida sciolga / dalla spalla la corda ed additi / sulla roccia – l’attacco –»“Attacco”, 1933).

Si potrebbe a questo punto parlare di suggestioni ermetiche, ma è la stessa Antonia ad allontanarci da questo pensiero. L'ermetismo, scrive nel 1935 nella sua tesi di laurea sulla formazione letteraria di Flaubert, è una «forma di arbitrarietà intuitiva che non ha più un metro con cui confrontarsi nell'oggettività dell'espressione e la poesia pare, oggi, distolta dalla pienezza della realtà umana e ha ormai solo carattere di evasione e rifugio interiore, non più di compensazione e risoluzione della vita completa».
Più facile, forse, avvicinare l’opera di Antonia a quelle della cosiddetta “linea lombarda”: un gruppo di poeti, di cui Sereni è considerato il capostipite, particolarmente sensibili a componenti dimesse della quotidianità e al rapporto dell’uomo con il paesaggio.

Non vogliamo, in questa sede, indugiare sugli aspetti biografici, sul primo amore mai vissuto con Antonio Maria Cervi, suo professore di lettere classiche, sulla seconda impronunciabile passione non ricambiata per il suo coetaneo e filosofo Remo Cantoni, sull’incapacità di confrontarsi serenamente con il vivace ambiente letterario milanese e sulle altre possibili cause delle contraddizioni e dell’inquietudine che hanno condotto Antonia alla resa.
Preferiamo concludere e fare un invito alla lettura, all’incontro e alla scalata.