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“The Makropulos Case”, regia di Robert Wilson

di Luca Errichiello / 16 giugno

In un mondo netto e chiaro, disegnato da confini demarcati, è possibile che qualche concetto vitale possa perdere il proprio carattere indistinto e divenire improvvisamente evidente. Per questo è necessario portare un trucco pesante e che le scriminature siano ben visibili. Anche le rughe devono diventare possenti solchi, in cui il pallore del trucco bianco, da mimo, possa rifugiarsi, quasi impaurito dalla trasformazione che ha permesso. Se tutto questo è necessario per vedere un concetto nitidamente, è pur vero che i personaggi creati non potranno che muoversi con netti scatti di automi e avere abiti sgargianti e puntuti. A collegare uno stato emotivo al successivo sono i movimenti, o meglio l’insieme di posizioni impercettibilmente differenti tra loro che assume il corpo nel proiettarsi da una situazione all’altra. Ogni posizione è un atto che riassume nella tesa immobilità apparente ciò che lo precede e ciò che lo seguirà. Come dire che non esista una nota che sorga dal nulla. Come dire che non esista che una nota tra due note per formare una melodia, anche quando la prima nota è il silenzio. Frammentare i movimenti, inscatolarli in attimi separati e poi ricomporli a rallentatore è il lavoro del regista Robert Wilson, vertice del teatro mondiale. Non importa che la melodia ricreata sia inizialmente distante dal senso che di norma ritroviamo nella nostra realtà: basta che essa sappia configurare un mondo che ci parli di un mito che parte dall’uomo, anche se finisce per trascenderlo. Ciò che trascende l’uomo è per Wilson un personaggio in carne ed ossa: Emilia Marty (Soňa Červenà), regina della discontinuità nella storia di un processo per un’eredità che si trascina da decenni. La Marty è appunto la nota che non ha antecedenti né conseguenti e, come tale, è una frattura nella melodia, così come nella vicenda Makropulos. È elemento di-rompente, Marty, perché rompe l’equilibrio instabile del giovane Janek (Vàclav Postràneckŷ) e cor-rompe con i suoi misteri la posizione degli altri personaggi nel paludoso processo. Ma Marty è personaggio di rottura soprattutto perché, nell’apparente nettezza del suo vestiario, simile a quello degli altri personaggi, non risulta, come questi ultimi, immediatamente visibile e comprensibile, evidente. Gli avvocati, i giovani innamorati, gli eredi, sono stereotipi che si rendono trasparenti da ogni prospettiva, sono uomini semplici e, nella loro semplicità, universali. Al contrario Emilia Marty giace in pose imperscrutabili, perché porta in sé il segreto della dis-umanità. Emblema della narrazione wilsoniana è però il narratore con il bastone (Vladimìr Javorskŷ), allampanato personaggio che ci traghetta nella vicenda, ma soprattutto nella dinamica del teatro di Robert Wilson. Egli infatti è alfiere di un teatro di mimica e movimento cadenzato, che corre costantemente il rischio di apparire lento e monotono, ma che ovviamente Wilson e i suoi attori sanno portare al pubblico con il fascino e la discrezione dei grandi artisti. Ne consegue una messa in scena epica e ammaliante, apparentemente scarna, ma frutto di una ricerca poderosa e continua, che porta a Napoli e in Italia un teatro anatomicamente distante da quello nostrano, che fa risaltare non singoli personaggi, ma ogni singolo movimento di ogni singolo volto, istantanea di un teatro di fotogrammi intrecciati con le parole.

 

The Makropulos Case
di Karel Čapek
regia di Robert Wilson
produzione Prague National Theatre
in collaborazione con Change Performing Arts

Andato in scena dal 7 al 24 giugno 2012 presso il Teatro Mercadante di Napoli.