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“Nessun luogo è più sicuro” di Milo Ratkovic

di Roberto Bioy Fälsher / 11 ottobre

Con un tempismo un poco inquietante e un intuito letterario che gli va riconosciuto, un piccolo editore romano si è incaricato di ripubblicare il romanzo d’esordio, e anche l’unico, dello scrittore di origine croata Milo Ratkovic, cresciuto in Slovenia ma rifugiatosi in Italia allo scoppio delle guerre balcaniche, e morto suicida la notte del 6 dicembre 1991, durante i bombardamenti della città di Dubrovnik.
Il romanzo, pubblicato a Trieste in alcune copie a spese dell’autore, conobbe un breve e rapido successo che convinse un editore nazionale ad acquisirne i diritti per alcuni anni, salvo poi ritirare la volontà di diffonderlo a livello nazionale. La sua ricomparsa non può dunque che essere una felice notizia per quello che pare davvero una gemma preziosa, purtroppo ancora al suo stato grezzo.
Cosa sarebbe stato di Ratkovic, se avesse continuato a scrivere, è un pensiero che può solo allungare la lista delle congetture e possibilità storiche e che ci esimeremo dunque qui dall’approcciare. Quanto invece sia lungimirante, e anche un po’ astuta, la scelta di ripubblicarlo oggi appare evidente dalla trama del romanzo.
Nessun luogo è più sicuro è la storia di Piero, studente ventiquattrenne in biologia molecolare che sta emigrando in Francia, e Leila, una profuga libica conosciuta sul treno verso Nizza. Leila è piuttosto una rifugiata politica, allontanatasi da Tripoli e sbarcata in Italia dopo l’assassinio di suo padre, oppositore del regime di Gheddafi. Ma non è salva come crede e per ottenere i documenti per il riconoscimento di rifugiata politica è sottoposta un iter oscuro e drammatico.
Per questo ora Leila si sta spostando clandestinamente in Francia, e trova l’aiuto del giovane e idealista Piero, che se ne innamora. Nonostante nella tradizione commerciale letteraria questo incipit potrebbe portare a un’evoluzione da thriller con spari e inseguimenti, nel resto del libro non succede niente di tutto ciò.
Passata la frontiera con un abile stratagemma, il romanzo si sofferma invece sui dettagli della vita quotidiana, sulla loro battaglia giornaliera che questa nuova coppia affronta, sui dettagli che la spingono a resistere.
La bravura letteraria e la cifra di Ratkovic sta proprio qui. Seguendo gli insegnamenti dell’eremita e filosofo slavo Solenkin, Ratkovic non sceglie mai di raccontare storie più grandi di lui, ma inquadra il suo obbiettivo nella quotidianità serenamente disperata dei personaggi, la ricerca di un’inaspettata normalità. C’è una tensione placida e insopportabile, quella, come diceva Hitchcock, del bicchiere sull’orlo del tavolo che sta per cadere ma non arriva mai a scivolare giù, eppure nessuno mai è in pericolo di vita evidente. C’è invece la lotta per ritrovare una vita, per costruire una nuova possibilità che sembra distruggersi a ogni tentativo.
Metafora di questa impossibilità è la gravidanza che Leila non riesce a portare a termine, o i continui viaggi della madre di Piero puntualmente annullati. Così gli unici momenti di felicità della coppia sembrano essere le domeniche pomeriggio passate nel giardino della villetta adiacente al loro appartamento, quella dei vicini Paul e Silvya, che li accolgono calorosamente. Ma la solidarietà e l’amicizia sono destinate a scomparire con Paul e Sylvia inghiottiti misteriosamente nelle pieghe della storia. Leila e Piero saranno costretti a mettersi di nuovo in viaggio, cavalcando nella Ardèche, rapidi, come se essere sempre di corsa fosse l’ultimo (non)luogo sicuro.
Un western romantico, un capolavoro intimista, un romanzo sociale e un grido di libertà che scuote la vecchia Europa, un romanzo che fu in grado di guardare nel futuro e che oggi può risuonare con malinconia il suo avvertimento.