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“Homeland” di G. Raff, H. Gordon e A. Gansa

di Alessio Belli / 31 ottobre

Alcuni drammi storici si cicatrizzano solo parlandone. Rendendoli pubblici, mostrandoli senza filtri. Gli Stati Uniti per chiudere il terribile squarcio delle Torri Gemelle e le successive operazioni militari, hanno usato tutti i mezzi narrativi a loro disposizione per mostrare al mondo e a loro stessi il proprio dolore. Ma anche la voglia di andare avanti. Strumento privilegiato e più autorevole di questa cura è stato per molto tempo il cinema: dal corale 119 ai numerosi thriller e film drammatici basati sulla lotta al terrorismo e sulle campagne in Medio Oriente, tra cui spiccano lo sconcertante Redacted del maestro De Palma, e il più recente e premiato The Hurt Locker della Bigelow.

Ora la tv sale in cattedra, e dopo aver proposto le tematiche in salsa action (arrivando a livelli superbi con il cult 24), ci propone il lato drammatico della lotta ad Al-Qaida con Homeland – Caccia alla spia, la serie per eccellenza del 2012, capace di sbancare sia a livello di ascolto che a livello di critica e premi.

E basta davvero poco per capire il motivo di un tale successo. Già dalla puntata pilota il tenore qualitativo della produzione si mostra notevole, cinematografico per impostazione e investimento dei mezzi. Vediamo nelle prime scene l’agente della CIA Carrie Mathison scoprire da una sua fonte segreta che il terrorista Abu Nazir ha appena convertito un agente dell’esercito americano ai fine della sua battaglia. Stacco. Dopo un anno, l’agente scopre che in una recente missione, sono stati ritrovati, dopo otto anni di prigionia, due marines americani. Uno morto, l’altro vivo. Il superstite, il sergente Brody, è pronto a tornare a casa, celebrato come eroe di guerra. C’è solo un problema, un dubbio: Carrie è convinta che la spia di Abu Nazir sia proprio lui. Ne è convinta così tanto da farlo sorvegliare di nascosto, arruolando sue vecchie conoscenze per mettere la casa sotto controllo audio e video. Il suo mentore, inizialmente, è giustamente scettico, ma appena arrivati alla fine della prima puntata, scopriamo che i sospetti sono motivati.

Tratta dall’israeliana Hatufim e prodotto di punta della rete Showtime, la serie è il classico esempio di prodotto televisivo tranquillamente capace di competere e battere qualsiasi lavoro cinematografico.

A livello di sceneggiatura, Homeland è la quintessenza della serie-drama per eccellenza: sviluppo della profondità dei personaggi, regia impeccabile, uso del flashback magistrale e soprattutto dei colpi di scena finali che legano completamente lo spettatore a ogni episodio.

Menzione a parte per il cast, fresco di Emmy, in cui Claire Danes raggiunge la maturità del suo percorso recitativo. Grazie a lei l’agente Mathison è fragile, tesa, paranoica e ossessionata dalla vita privata turbolenta e troppo spesso assuefatta ai medicinali. Ma al contempo è determinata e spietata nel perseguire la sua missione e scoprire i misteri dietro il ritorno a casa di Nicholas Brody, interpretato altrettanto magnificamente da Damian Lewis, già visto e apprezzato nella stupenda Band of Brothers e nella sfortunata Life, partita con il botto e poi troncata a metà della seconda stagione. A chiudere il quadro, Mandy Patinkin, il Gideon di Criminal Minds, qui nel ruolo del supervisore e mentore di Carrie.

Giunto ormai a una seconda stagione che già sta incollando l’America davanti allo schermo, Homeland si appresta a essere annoverata tra gli annali delle serie e a fare la storia del piccolo schermo, sia per gli effettivi meriti, sia per il seguito che sta creando. Bentornato a casa, agente Brody.