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Cinema

[RomaFilmFest7] Seconda giornata

di Francesco Vannutelli / 11 novembre

Presentato ieri il primo film italiano in concorso, Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi.
Accolto con tiepidi applausi dalla critica nella proiezione stampa della mattina, la seconda opera di fiction di Giovannesi segue una settimana nella vita di Nader, ragazzino sedicenne nato in Italia da genitori egiziani, sospeso tra i valori della famiglia e la libertà, aspirata o realizzata, dell’adolescenza.
Il riferimento a Pasolini è evidente sin dal titolo ma non si esaurisce lì. Con sguardo simile a quello del poeta, Giovannesi pedina la vita di Nader e dei suoi coetanei in un’Ostia mai apparsa così lontana da Roma. Come già in Fratelli d’Italia, apprezzato documentario del 2009, il regista si concentra sulla vita degli italiani di seconda generazione, sulle loro incertezze tra famiglie troppo protettive e l’ambizione semplice di essere solo ragazzi, senza badare al paese di origine. Nader si mette le lenti a contatto azzurre, si veste con la tuta del Brasile e risponde in romano alla madre che lo rimprovera in arabo. Sogna di stare in pace con la sua ragazza Brigitte, ma i genitori non vogliono che abbia una relazione con una cristiana. Il suo migliore amico è Stefano, impulsivo e ingenuo bulletto che trascina l’amico in una serie di bravate oltre il limite della legalità che i due finiscono per pagare a caro prezzo.
In una periferia basata su una solidarietà di tipo tribale – gli italiani si aiutano tra di loro contro il nemico esterno, gli arabi si coalizzano e chiudono perché gli italiani «non sono cattivi, solo non sono come noi» e i romeni reagiscono con violenza sproporzionata ad ogni affronto subito – solo gli adolescenti sembrano muoversi, ed essere considerati, al di fuori di logiche etniche di reciproca ostilità. Il ritratto duro che ne emerge è un’immagine fedele della periferia romana – e italiana – degli anni dieci del 2000. Una realtà sempre più multietnica ma fondata ancora su ignoranza e aggressività primitiva.

Totalmente diversa l’immagine della periferia australiana che offre Mental di P.J. Hogan. Presentato fuori concorso con un ottimo riscontro durante la proiezione per la stampa, tra risate e applausi, il film del regista de Il matrimonio del mio migliore amico, membro della giuria ufficiale, affronta il tema della malattia mentale con leggerezza e ironia, sorprendendo con numeri musicali e umorismo scorretto.
Shirley Moochmore è una casalinga fragile di nervi, incapace di badare alle sue cinque figlie, convinte di soffrire ognuna di una diversa patologia psichica, e stremata da un marito infedele e assente che si rifugia dietro il suo incarico di sindaco della cittadina di Dolphin Heads per sfuggire alle sue responsabilità.
Il sogno di Shirley è quello di una famiglia come i Von Trapp, complesso canoro austriaco le cui canzoni sono alla base di Tutti insieme appassionatamente.
Dopo una crisi particolarmente acuta, Shirley viene ricoverata in manicomio. Il marito, incapace di badare alle figlie, decide di affidarle a un’autostoppista di nome Shaz – un’ottima Toni Colette – che assume come babysitter. Scaraventata nel tranquillo quartiere residenziale come un neutrone libero in un reattore nucleare, Shaz avvia un processo di fissione che rilascia energia e distrugge gli equilibri borghesi che reggono l’ordine della cittadina, rivelando ipocrisie e debolezze. L’arrivo di Shaz, però, non è casuale. Qualcosa l’ha spinta verso la famiglia Moochmore, qualcosa che la tormenta dal passato e si nasconde nella pancia di uno squalo in formaldeide esposto nel parco acquatico dove lavora Coral, la figlia maggiore di Shirley.
Un’autentica sorpresa, il film di Hogan, che colpisce per la sua leggerezza che non concede mai troppo alla volgarità, salvo per la sequenza dei divani bianchi e il finale pecoreccio degno di un filmaccio con Alvaro Vitali, e per il ritratto delicato di una famiglia che si crede terribile ma si rivela migliore di tutte le altre.

In serata è la prima per il pubblico di La scoperta dell’alba ad attirare una gran folla in Sala Petrassi. Opera seconda di Susanna Nicchiarelli (nel 2009 con Cosmonauta vinse il premio Controcampo Italiano a Venezia), il film è tratto dal romanzo omonimo d’esordio di Walter Veltroni.
 


Dopo la morte della madre, Caterina (Margherita Buy) e sua sorella decidono di sbarazzarsi della casa al mare ormai inutilizzata. Mentre traslocano i ricordi di una vita, Caterina decide di provare a comporre il numero della vecchia casa di famiglia sul telefono a disco ricoperto di polvere. Quando dall’altro capo sente rispondere una bambina non vuole crederci. In qualche modo si è aperto un varco temporale e Caterina si trova ora a parlare con se stessa bambina. È l’occasione per capire che fine abbia fatto il padre, un professore scomparso all’improvviso trent’anni prima, forse rapito dalle Brigate Rosse, forse scappato con una nuova donna.
Prima pellicola in concorso nella sezione «Prospettive Italia», La Scoperta dell’alba è un film che delude e finisce per annoiare. Nel tentativo di creare tensione nell’indagine ultratemporale di Caterina, la Nicchiarelli finisce per mettere in scena una storia sconnessa, lenta, con un ritmo altalenante e una caratterizzazione dei personaggi appena accennata non sorretta dalle interpretazioni migliori di un cast di ottimo livello.
Prima della proiezione, due corti: Esca Viva, della stessa Nicchiarelli, godibile film d’animazione su un pesce scaltro (doppiato da Claudia Pandolfi) che riesce a parole a sfuggire alle logiche della catena alimentare, e Il Turno di notte lo fanno le stelle, regia di Edoardo Ponti, storia di trapianti e alpinismo e dell’intesa che può nascere tra due persone che condividono la dolorosa esperienza di un intervento al cuore. Vuole essere intenso e poetico il corto di Ponti, ma non ci riesce. Risulta gonfio di un lirismo enfatico tipico della scrittura di Erri de Luca, autore di soggetto e sceneggiatura e presente con un cameo nel ruolo del gestore del rifugio. Nella piattezza generale si salvano solo le Dolomiti.

La vera protagonista di questa seconda giornata di manifestazione è stata però la disorganizzazione. Se nelle proiezioni della mattina riservate alla stampa si lamenta un cambio di programma tra i due spettacoli (Alì proiettato prima di Mental anziché il contrario) non debitamente segnalata agli addetti ai lavori, è alla sera, nelle proiezioni per il pubblico che si rivelano i difetti maggiori della macchina organizzativa.
La lunga fila per gli accreditati alla proiezione di Carlo!, documentario di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni sulla carriera di Carlo Verdone, presentato fuori concorso nella categoria Prospettive Italia, non scorre. Ci si ritrova ad attendere inutilmente finché non viene comunicato che i posti sono esauriti. Quando una decina di autorizzati vengono lasciati entrare esplode una tenue protesta di quanti si sono visti sorpassare senza motivo da persone fuori dalla fila.
 


 

Ma è nell’attiguo Teatro Studio che avviene il fatto più grave. Una signora protesta: era munita di biglietto ma era finita per errore nella fila degli accrediti. Le viene detto che non c’è più nulla da fare, il film è iniziato da troppo tempo, la sala è piena e non è più possibile accedere alla proiezione. La signora chiede il rimborso, lamenta la cattiva delimitazione delle due file ma gli addetti alla sicurezza le comunicano che ormai nulla è più possibile.
La protesta continua, le voci si alzano, la donna pretende ragione. Arrivano degli agenti in borghese che prima accerchiano la signora mettendola spalle al muro, poi la trascinano di peso fuori dall’Auditorium, sotto gli sguardi sbigottiti dei presenti.
Al di fuori della struttura la questione prosegue, si forma un capannello. La donna, circondata da altri agenti, denuncia a gran voce l’arbitraria violenza subita. Alcuni invitano i poliziotti a levarle le mani di dosso, a lasciarla andare, vengono spinti via, trascinati per i capelli con metodi da guerriglia civile. I cellulari filmano tutto, il pubblico osserva incredulo, qualcuno protesta a gran voce.
Finisce con la signora trasportata fuori dal Parco della Musica, lontano dal tappeto rosso e dalle televisioni che potrebbero documentare qualcosa di compromettente.
Un brutto episodio, decisamente sgradevole, che rivela tutte le debolezze di un’organizzazione incapace di gestire un afflusso di pubblico nettamente inferiore alle aspettative e alle precedenti edizioni.