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Cinema

[RomaFilmFest7] Sesta giornata

di Francesco Vannutelli / 15 novembre

«Revenge never gets old», la vendetta non invecchia mai, si legge sulla locandina di Bullet to The Head, nuovo film di Walter Hill presentato in anteprima fuori concorso al Film Festival di Roma. No, la vendetta non invecchia mai, ma non è la sola. Neanche i duri invecchiano, neanche quando la logica e il buon senso, oltreché l’artrite, imporrebbero il ritiro. Perché il film di Hill è il classico film di uomini duri per uomini duri, che siano poliziotti o criminali cambia poco. Uomini muscolari, che si menano di santa ragione, del tutto estranei alle ferite (se non a quelle strategiche, che incorniciano il volto di sangue per sguardi ancor più truci), che fanno saltare in aria palazzi e si allontanano in ralenti mentre tutto brucia sullo sfondo. E per un film del genere ci vuole un duro vero, uno di quelli con le vene che esplodono, il collo capace di trainare un aratro, un carisma irrefrenabile, magari un vecchio leone che sappia catalizzare il pubblico con un solo guizzo di bicipite. Uno di quelli della vecchia scuola, insomma. Uno alla Stallone, per intenderci. Anzi, ci vuole proprio Stallone. E allora eccolo, il vecchio Sly, che a 66 anni torna a calarsi nei panni di un killer dal corpo di marmo e il cuore appena più tenero.
 


Era da Shades del 2004 che Stallone non interpretava un ruolo in un film che non fosse da lui scritto o diretto. Nel frattempo ci sono stati i sequel a quindici anni di distanza di Rocky e Rambo, la cafonissima serie di The Expendables, qualche particina in tv e null’altro.
Ora eccolo tornare nel film di Walter Hill, premiato a Roma con il Maverick Director Award per la sua carriera di sceneggiatore (The Getaway), produttore (Alien) e regista (I guerrieri della notte), pronto come ai vecchi tempi a vedersela con esplosioni e cazzotti.
Stallone è Jimmy Bobo, un sicario di New Orleans che dopo un lavoro andato a segno vede il suo socio eliminato a coltellate in un bar da un omaccione di nome Keegan (Jason Momoa, il Khal Drogo della serie Game of Thrones) che poi tenta invano, con una rissa in bagno, di sbarazzarsi anche di lui. Bobo viene contattato da Kwon (Sung Kang), un detective della polizia di Washington arrivato in Lousiana per indagare sull’uomo eliminato da Bobo e socio, un ex poliziotto corrotto in possesso di alcune informazioni trafugate dal database di D.C.
Il criminale e lo sbirro sono costretti a collaborare alla ricerca del mandante sia dell’omicidio dell’ex poliziotto che del socio di Stallone. Si troveranno ad affrontare un’intricata serie di rapporti tra malavita e politica ordita dall’affarista africano Morel, in un mondo di corruzione e arrivismo.
Pur basandosi su un plot abbastanza trito, Bullet to The Head è un film che riesce a sorprendere. La coppia Bobo-Kwon funziona benissimo nonostante sia l’ennesima variazione sul tema della strana coppia che Hill aveva già frequentato ai tempi di 48 ore e Danko. L’accoppiata piedipiatti-killer è la vera forza del film, somma in sé una serie di altri duo già sfruttati al cinema: l’interrazziale, il giovane-vecchio, moderno-antico, legale-caotico, e così via. Quello che viene fuori è un susseguirsi di battute fulminanti che i due si scambiano in ogni scena. Pur risultando un po’ troppo irrigidito dal botulino, Stallone sorprende con una carica ironica senza precedenti. È lui a strappare risate e applausi per tutta la proiezione. Una prova incredibile di un attore che, grazie anche al grandissimo mestiere di Hill, riesce ancora a sorprendere il pubblico.

È roba da duri anche il secondo film asiatico a sorpresa, insieme a 1942, presentato oggi in concorso ufficiale. Si tratta di Duzhan-Drug War, il ritorno alla regia di Johnnie To, maestro pluripremiato, stimato tra gli altri da Quentin Tarantino, del cinema di Hong Kong che a partire dagli anni ’90, con la sua casa di produzione Milkyway, ha completamente rinnovato il genere noir imponendosi all’attenzione mondiale. To è la carta a sorpresa a cui si affida Müller, che già negli anni della direzione della Mostra di Venezia ha sempre fatto largo affidamento sulle opere del regista di Hong Kong, presentando in concorso Exiled nel 2006, Mad Detective come film a sorpresa nel 2007, e Life Without Principle, candidato anche all’Oscar come miglior film straniero, nel 2011.
In Drug War, il capitano di polizia Lei, durante un’operazione antidroga, si imbatte in ospedale nel trafficante Ming, ricoverato dopo essersi schiantato con la sua auto mentre fuggiva dal rogo del suo laboratorio di anfetamine. Il capitano accetta l’offerta dello spacciatore che, in cambio della vita (in Cina la produzione di droga è punita con la morte), si propone come collaboratore per sabotare l’intera rete di distribuzione di stupefacenti nell’intero sud-est asiatico. La squadra di Lei inizia così un viaggio nel mondo della grande distribuzione di eroina e cristalli, identificando e smascherando tutti i signori della droga.
Il film di To è una novità assoluta. Per la prima volta si parla apertamente della realtà dello spaccio di droga in Cina, in quella che è una delle tratte di distribuzione più importanti del mondo. In compagnia del suo fido socio e sceneggiatore Wai Ka-Fai, To fornisce un film compatto e frenetico che si muove incessante lungo le autostrade della Cina orientale sulla scia bianca della droga. Una carrellata di personaggi memorabili, come l’imprenditore ittico Fra Haha, che si vuole espandere nel mondo della droga, e i fratelli sordomuti che confezionano anfetamine per Ming, fa da cornice allo straordinario Lei di Honglei Sun, fenomenale per doti di trasformismo che il suo personaggio richiede nelle scene da infiltrato.
Forse il film migliore visto tra quelli in concorso finora. Un action tirato che inchioda alla sedia. Un documento importante per capire che cosa sia la Cina oggi.

Presentato infine l’ultimo film italiano in concorso di questa edizione, E la chiamano estate. Cinque anni dopo i fischi di Venezia che accolsero Nessuna qualità agli eroi, Paolo Franchi torna al cinema con la storia di Dino (Jean-Marc Barr) e Anna (Isabella Ferrari), una coppia di quarantenni apparentemente felici nel loro grande amore. C’è qualcosa però che non torna, un’incapacità della coppia di essere completa. Dino non è in grado di fare l’amore con sua moglie. Alcuni anni prima la drammatica morte per suicidio del fratello a cui era molto legato lo ha reso incapace di manifestare fisicamente i propri sentimenti. Ama Anna ma non può farci l’amore. Per lui amore e sesso sono due mondi distanti, intangibili. Per questo sfoga i suoi istinti in frequentazioni sessuali sordide con scambisti e prostitute sfregiate. Lontano dalla sua donna Dino riesce a sfogare la carne, ma si tratta appunto solo di uno sfogo, un’emorragia di sudore che lo lascia con un vuoto crescente e un senso di colpa verso Anna. Lui vorrebbe soddisfarla, ma non può. Non ha il coraggio di intraprendere un percorso di psicanalisi che lo costringerebbe ad affrontare il passato. Cerca da solo una soluzione al problema, inizia a rintracciare i passati amori di Anna, gliene offre la carne, li implora di fare sesso con lei, sprona la moglie a cercarsi un amante. Anna ama Dino di un amore che non ha bisogno di fisicità. Lei è felice con lui così com’è. Si chiede come sarebbe un amore diverso con lui, ma è convinta che non sarebbe migliore di quello che hanno. La frustrazione di Dino, però, li spinge sempre più lontani e quando lei si lascia sedurre da un giovane spasimante è già troppo tardi perché la loro storia si possa salvare.
 


 

Lento. Algido. Ripetitivo. Estenuante. Questi i primi aggettivi che vengono in mente una volta usciti dalla sala. Sarà per la struttura narrativa fatta a sequenze mescolate non in ordine cronologico. Sarà per la fotografia abbacinantemente sovraesposta sui toni di bianco di Cesare Accetta e Enzo Carpineta. Sarà che Dino non fa altro che accoppiarsi con sconosciute, giacere sul letto con la moglie, inseguire i suoi ex. Sarà che tutto sommato non succede nulla per tutti i novanta minuti di film che sorprenda lo spettatore. Sarà che il finale è chiaro, se non dalla prima, dalla seconda scena. Sarà che le riprese iperrealiste, che quasi spiano la vita della coppia, rendono tutto distante, asettico, privo di emozioni. Sarà che le voci off che commentano foto e illustranoex post la storia di Dino e Anna non aggiungono nulla. Sarà che anche se si prova a fermarsi e a cercare un eventuale senso più profondo del film non ci si riesce. Forse vuole essere un’indagine sulla coppia moderna, un’analisi del ruolo del maschio, dell’impossibilità di un amore che non sia passione, delle frustrazioni dell’impotenza, forse tutte queste cose insieme. Ma non ci riesce.
Fortemente criticato durante la conferenza stampa, E la chiamano estate è un film lontano anni luce dal pubblico, che non riesce a sfruttare a pieno un buon soggetto, sviluppato dallo stesso regista, per inseguire un manierismo espositivo che non colpisce se non in maniera negativa. E quando poi ci si ferma a pensare di nuovo al film, dopo averne assimilato i testi e i sottotesti, vengono in mente quattro aggettivi per descriverlo che sono già noti. Lento. Algido. Ripetitivo. Estenuante.