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“Le ceneri di Jan” di Jan Jaromil

di Roberto Bioy Fälsher / 15 novembre

È raro che mi occupi di libri di poesia. Questo sia per la predilezione – ormai nota – che ho per la prosa, ma anche perché ritengo che la poesia si stia distaccando inesorabilmente da quei suoi valori semantico-simbolico-sociali che da sempre ne hanno contraddistinto la natura. Raro, ma a volte può capitare. Soprattutto quando scovo, qua e là tra le carte, lirismi eccelsi, in grado di trascinare l’animo del lettore come i cavalli alati di Platone. O, ancora, quando vecchi amici di tempi andati, durante una gradevole cena nostalgica, tirano fuori all’improvviso versi mai uditi, capaci però di rimanere impressi nella memoria come l’eco melodica di certi passeri di montagna.

Quest’ultima è la sorte capitata al libro di cui mi accingo a scrivere: Le ceneri di Jan, di Jan Jaromil, pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Imprimatur.

Devo infatti ringraziare il caro amico Bedřic Liszt, oltre che per la sua ottima birra artigianale, soprattutto per aver colpito la mia attenzione citando, nel bel mezzo di un banchetto, alcune poesie di questo giovane poeta boemo, morto suicida a Praga, all’eta di vent’anni, il 19 gennaio del 1999, a trent’anni esatti dalla scomparsa del patriota cecoslovacco Jan Palach.

Un titolo polivalente, quantomai azzeccato, quello scelto dall’editore triestino. Sebbene infatti la silloge poetica di Jaromil – l’unica purtroppo, data la morte prematura dell’autore – si intitoli Má Vast, cioè La mia Patria, con un chiaro riferimento all’opera del compositore ceco Bedřic Smetana, altrettanto limpido è il rimando del titolo italiano a Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini. Facile intuirne il motivo: sia Pasolini che Jaromil furono attratti, il primo per contingenze storiche, il secondo per un’ossessione compulsiva culminata poi nell’estremo gesto di darsi la morte, dalla figura di Jan Palach, uno degli eroi della Primavera di Praga.

La raccolta poetica di Jaromil è divisa in tre sezioni – “Infanzia”, “Il viaggio”, “Gli anni del tumulto” – contenenti undici poesie ciascuna, per un totale di trentatré componimenti.

La prima sezione, quella più acerba, è marcatamente aulica: quasi fosse preso da un istinto onirico, il poeta descrive il villaggio natale di Zdikov, nel sud della Boemia, la natura che lo circonda e la vita quotidiana della sua numerosa famiglia. Nonostante una evidente inesperienza dell’autore dal punto di vista metrico-sillabico, merita menzione la sua undicesima poesia, “Congedo”, che chiude la prima parte, introducendo quello che sarà il tema centrale della seconda sezione, cioè il viaggio da Zdikov a Praga: «In una vaga disperazione il vento / si dibatte sulle pieghe della giacca, / sgualcita, / come lo sguardo di chi se ne va / senza voltarsi, senza mostrar / il cuore fra le mani / per timore di restar legato / al tremito dei corpi per lui più cari».

La scoperta di un mondo altro da quello familiare di Zdikov accende nel giovane poeta la scintilla del verso libero. Abbandona così definitivamente la metrica classica e a trarne giovamento è, sicuramente, la sua vena lirica, indiscutibile nel breve componimento “La mia Moldava”, in cui l’identificazione tra il poeta e il fiume Moldava, che si allontana dalla sorgente per andare a morire come affluente, è inequivocabile e totale: «Sfuma il cielo nella notte / immemore del suo azzurro colore / e la Moldava ignara scorre / ed io con lei verso un’imperitura memoria. / Lontano si intravede la diafana fosforenza dell’alba: / non è più tempo di restare entro gli argini del letto».

La terza e ultima parte non lascia scampo a dubbi circa la sorte che toccherà al giovane poeta: l’amore per la patria, da sempre incastonato nel cuore dei boemi, esplode inesorabile sotto forma di sdegno, di rivolta verso uno stato corrotto e dimentico della gloria passata, condannando il giovane Jaromil alla morte più ingiusta ma anche la più eroica. I versi di “Piazza San Venceslao”, scritti in ricordo di Jan Palach, sono la testimonianza ultima e, anche per questo, indelebile della forza lirica del poeta di Zdikov: «Lasciai l’aria stringendo i denti / mentre il cuore franava giù dal mio patibolo. / Si incendiò il cielo / ma solo nei miei occhi. / E alla cenere tornai come ogni altro uomo / fino ad allora».

Riposi dunque in pace il giovane Jaromil. Con l’augurio che i suoi versi possano animare anche le vostre emozioni così come hanno fatto con le mie.