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“Il salario della paura” di Georges Arnaud

di Cristiana Saporito / 8 gennaio

Ecco, si parte. Ci si allaccia i pensieri per non inciampare nelle scarpe. Perché la strada avrà mille strati e pavimenti scomodi. Non ci si volta più, il passato meduseo pietrifica i passi. Ci si imbarca verso l’ignoto ed è permesso dire solo “domani”. Da quando esiste un altrove, l’uomo non fa che raggiungerlo.

E non parliamo soltanto dei cercatori d’oro, dei conquistadores spinti lontano dal feticcio del denaro facile, della terra più fresca e mai posseduta. Esistono stormi di esseri umani che dentro ogni stagione si distaccano dal proprio suolo, perché è talmente secco da cacciare anche le lacrime. Perché la guerra, la fame e altre favole nere hanno ucciso il futuro prima ancora di averlo promesso.

Perché nel loro caso l’oro è sopravvivere.

Sono loro, i disperati del pianeta, i flussi vagabondi, i tramps, coloro che camminano a ritmo cadenzato, i protagonisti assoluti del romanzo di Georges Arnaud Il salario della paura (Fandango, 2012).

Ed è difficile immaginare un titolo più indovinato. A Las Piedras, nel Guatemala sventrato e annerito dai pozzi petroliferi, un branco di avventurieri viene reclutato dalla Crude Oil per trasportare nitroglicerina su una pista crudele a bordo di due camion senza dispositivi di sicurezza. È l’unico sistema possibile per placare l’incendio del “taladro”, la torre di trivellazione andata a fuoco in una notte di canicola e sudore.

Il vento infiammato dilata l’orrore e O’Brien, il boss, l’irlandese sbucato dalla miseria avvezzo a fronteggiare cataclismi di ogni sorta, dovrà ingaggiarli personalmente.

Anche lui, che «per anni ha trascinato i suoi quattro cenci da un porto all’altro in cerca di una via d’uscita», sa cosa significa ingoiare polvere e scambiarla con la propria vita, inzuppare magliette, annacquare giorni interi aspettando tempi giusti, cieli più teneri. Ora spetta a lui incontrare quell’ammasso di negletti, spiegare loro il da farsi e lasciare che scelgano.

C’è posto solo per quattro persone, che reputeranno mille dollari un prezzo ragionevole per il peso della loro esistenza, per il rischio incessante di saltare in aria al minimo sobbalzo.

Cinquecento chilometri fatti di centimetri infingardi, di strattoni in agguato, di mosse impercettibili e fatali.

Restano Gerard, Johnny, Juan e l’italiano Luigi. Sono loro i «candidati a morte». I quattro figli del niente immolati al pericolo, al 50% delle probabilità di deflagrare per una frenata di troppo.

Ognuno di loro cavalca quel “sì” perché l’alternativa è peggiore. L’alternativa è non riempire il piatto, farsi mantenere dall’amore e dalle grazie di una donna che si offre agli avventori, giocare sporco con se stessi.

La paura, quella legata a doppio filo alla loro ricompensa, fa parte del viaggio, ma non può prevalere.

La paura non ha tinta, non ha foggia, «è un liquido incolore, inodore, insipido», un veleno infilato nel bicchiere, da sorseggiare un tanto ogni minuto, per mitridatizzarsi, per dissetarsi con l’antidoto.

Quel tragitto costerà caro, costerà comunque. Imbottire i camion, inzavorrare, premunirsi per quel che si può, non sarà sufficiente. Ma il desiderio di andarsene, di scavalcare anche la sorte, di vincere quella scommessa cosmica da cui si è usciti sempre stracciati, pesta i piedi e fa rumore.

L’istinto irresistibile di scrivere un finale diverso, di provarci comunque.

Perché il miraggio corrode, perché l’idea di qualche istante al sole è più potente del terrore, deve esserlo per forza. E quella barca con cui ricominciare è la sola immaginare da tenere stretta.

Arnaud ci trascina nella loro cenere, nel caldo delirante di quel tempo sabbioso, di una cittadina inizialmente fiorente e poi lasciata appassire; un vicolo cieco in cui è facile arenarsi, tra sogni malarici e noia febbrile. Si sente l’odore della sifilide, la dissenterica atmosfera senza scampo, in cui o si va o si crepa.

Descrive magistralmente un girone dantesco dove si aggirano fantasmi in cerca di fuga. Non tratteggia, ma incide i volti di uomini che «hanno scartato le vere parole», che indossano un’identità «virile e banale di ombra cinese». E non ci sono finestre pulite, né altri finali da prendere in prestito.

(Georges Arnaud, Il salario della paura, a cura di Maurizio Ferrara, Fandango, 2012, pp. 190, euro 15)