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“Il Signore degli Orfani” di Adam Johnson

di Michele Lupo / 15 marzo

Un «romanzo coraggioso»: è stato definito così (con la solita enfasi che esibisce nell’elogio come nella stroncatura), da Michiko Kakutani sul New York Times il corposo racconto di Adam Johnson, Il Signore degli Orfani (Marsilio, 2013), ambientato nella segretissima Corea del Nord, un luogo in cui l’illusione della messinscena – dovuta allo strapotere del regime – è in grado di “configurare” un mondo che sembra di per sé un “fatto” letterario. O se volete, un film. Divertente però solo se non ci vivi dentro (se sei un lettore occidentale per esempio). Perché potresti dedicarti ad attività che se il buon senso considererebbe normali, il tiranno di casa, Kim Jong II, potrebbe trovare viceversa sconvenienti, se non pericolose: e così ammonirti: «non dimenticate che il divieto di osservare le stelle è sempre valido».

Un regime così (una macchina di propaganda e censura e repressione probabilmente oggi senza confronti al mondo) non consente distrazioni, dimenticanze, svaghi non organizzati e devianti rispetto alla mitologia che esso stesso crea, senza scampo. Eppure autorizza un paradosso: quello per cui un “uomo qualunque” – come vuole l’ideologia al ribasso di un’uguaglianza che riduce la specie a stampo immodificabile – segnato però da precipui talenti, conduca in quel regime una vita singolare. Talché i talenti occorsi in sorte a Pak Jun Do, il figlio del direttore di un orfanotrofio, suggeriscono al regime di prelevarlo e utilizzarlo in missioni straordinarie: degne di esser raccontate ma vissute con uno spirito alieno al comune senso di libertà (sensato o illusorio che sia) legato al nostro immaginario (e alla tradizione del romanzo occidentale).

Per concepire e descrivere – peraltro con esuberante disposizione e pregevole empatia – un destino del genere, serviva uno scrittore che quel mondo lo conoscesse. Cosa capitata appunto all’autore, americano di San Francisco meno che cinquantenne, che la Corea del Nord l’ha studiata a lungo e visitata riuscendo poi in questo romanzo a farne molto di più – per non dire, proprio altro – che un documentario sconvolgente (sulle radio obbligatoriamente accese, sulle librerie totalmente assenti, sul silenzio soffocato e raggelato degli abitanti, sulla fame etc).

Johnson scaraventa il lettore in quel mondo non semplicemente riproducendone l’assurdità ma ricreandone il clima: di una “realtà” che è fatta ad arte dal potere ed è la sola possibile per tutti (perché del mondo rimanente i coreani nulla sanno). Ridotto a un enorme panopticon, qualche milione di persone vive in una sorta di cupo incantamento nel quale intanto ogni gioia e allegrezza sembrano assenti (differenza ammettiamolo non da poco con regimi a noi molto più familiari e più che potenzialmente in grado di stordirci senza una repressione così clamorosa).

Un mondo trasformato in un intero campo di concentramento che non sappiamo quanto possa restare segreto (in rete scorrono immagini satellitari). E che Johnson racconta in un libro a tratti appassionante, nelle cui vicende l’intelligenza, la persuasione di sé e l’amore provano a scalfire il muro di piombo che le soffoca.


(Adam Johnson, Il Signore degli Orfani, trad. di Fabio Zucchella, Marsilio, 2013, pp. 560, euro 21)