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“Il tempo materiale”: a tu per tu con Giorgio Vasta e Luigi Ricca

di Dario De Cristofaro / 21 marzo

Qualche mese fa è uscito in libreria il graphic novel Il tempo materiale (Tunué, 2012) di Luigi Ricca, tratto dall’omonimo romanzo cult di Giorgio Vasta – pubblicato da minimum fax nel 2008 e candidato al Premio Strega 2009. Siamo riusciti a intervistare entrambi durante una delle presentazioni del volume.


Il graphic novel Il tempo materiale riesce a fondere il linguaggio usato da Giorgio Vasta nel suo romanzo con lo stile illustrativo di Luigi Ricca: quali sono gli aspetti importanti di questo incontro di codici?

Luigi Ricca [R.]: Il linguaggio utilizzato da Giorgio nel suo romanzo poteva risultare spiazzante soprattutto per il fatto di essere messo in bocca a dei bambini di undici anni, ma era parte integrante del racconto e della personalità dei protagonisti e andava assolutamente mantenuto. Ho lavorato facendo alcuni tagli perché lo spazio della pagina permette solo una certa quantità di testo, ci sono dei pesi e degli equilibri da rispettare tra parole e immagini, ma ho cercato di utilizzare quanto più possibile il testo originale: se lo avessi modificato sarebbe venuta fuori un’altra cosa, con un altro significato.

Giorgio Vasta [V.]: Quello che mi ha colpito è che il segno di Luigi – prima ancora che le scene fossero disegnate, cioè quando ancora era nella fase di studio dei personaggi – era per certi versi refrattario, aggressivo, come se non fosse ricavato da una matita bensì attraverso una piccola colluttazione, un conflitto tra lo strumento che traccia il segno e la piattaforma su cui il disegno viene rappresentato. In questo senso mi è sembrato di ritrovare, meravigliosamente sintetizzato in questo tratto, lo stesso tipo di antagonismo e di continuo conflitto con le frasi che ho cercato di generare scrivendo Il tempo materiale, come se non ci fosse semplicemente un fluire libero e limpido del discorso, ma questo fluire fosse sempre strettamente collegato alla sua negazione, a ciò che lo ostacola. Partendo da tutto questo, la narrazione viene conquistata contrapponendosi a un’istanza che spinge nella direzione opposta, un impulso che spinge a tacere. Un segno graffiato somiglia allora a come avevo immaginato la scrittura del mio romanzo.
 


Sicuramente l’iperverbalizzazione del romanzo di Giorgio, ma anche il silenzio e le emozioni, hanno richiesto uno studio particolare per essere rappresentate con efficacia nel disegno. Luigi, come hai deciso di gestire questi aspetti?

R.: Il silenzio è dato dall’immagine muta e dal ritmo del racconto e poi c’è un altro tipo di silenzio dato dal bianco della pagina. Anche la scelta del bianco e nero, del tratteggio nel disegno sono un modo per porsi in una precisa relazione con la scrittura: si tratta di un segno quasi calligrafico che cerca di essere il più libero possibile, pur essendo alla base molto geometrico. C’è il piano del racconto in cui mi affido alla recitazione dei personaggi, che ha richiesto uno studio profondo. Un altro aspetto interessante nella rappresentazione del silenzio è dato dai disegni con cui ho espresso l’alfamuto, cioè il linguaggio di segni che i protagonisti utilizzano per comunicare da un certo momento in poi. Riprodurre le pose dell’alfamuto è stata forse l’operazione più difficile perché alcuni di questi gesti erano molto caratterizzati dal movimento. Il più difficile è stato sicuramente quello della “vergogna”, ma spero comunque di essere riuscito a tradurre correttamente quella sorta di giravolta buffa.
 


La storia si ambienta in una Palermo non turistica, conosciuta solo dai palermitani. Credo che questa scelta abbia una valenza narrativa, è stato difficile renderla attraverso il disegno?

R.: Essendo palermitano anch’io, come Giorgio, ho provato una certa emozione nel leggere il libro e nel dover rappresentare quelle particolari zone della città che non hanno niente di interessante per i turisti, né sono caratterizzate da un degrado estremo. È stata una sfida rappresentarle perché ho cercato di trovare un interesse visivo in luoghi che di per sé ne sono privi, ma fanno comunque parte del mio immaginario della città. Tant’è che all’inizio avevo in mente di disegnarli in maniera diversa. Pensavo di far ricorso a uno stile non dico da manga, ma sicuramente più architettonico, un’esatta raffigurazione di questi palazzi e questi balconi avrebbero richiesto la pazienza certosina di un giapponese, che io non ho sicuramente. Alla fine è emerso il mio segno che è più violento, più schizzato, meno preciso. Quello che è venuto fuori è esattamente il paesaggio di Palermo, che trovi rappresentato anche in copertina, con la coesistenza tra il degrado materiale dell’edilizia più antica e quello estetico di quella più moderna, caratterizzata da questi palazzoni anonimi. È il paesaggio di Palermo, da cui non si scappa.

V.: Già nel romanzo c’è una specie di confronto e di conflitto tra i due modi in cui Palermo può esistere: il centro storico che ha qualcosa di misterioso e di insopportabile, una zona cittadina che fino a una ventina di anni fa era davvero una “no man’s land”, un luogo in cui, se eri nato in altri quartieri, non avevi ragione di andare e che non ti capitava nemmeno accidentalmente di attraversare. Il centro storico è per Nimbo qualcosa al contempo di attraente e repulsivo, l luogo del dialetto, che lo attrae proprio perché lui non proviene dalle case del centro storico ma da quei quartieri costruiti negli anni ’60 e ’70, un’edilizia programmaticamente anonima, irrelata e monotona. Cresciuto in questa parte di città mi sono reso conto che quando cresci in uno spazio anonimo e contemporaneamente ibrido (perché sovrapponibile a luoghi analoghi che si sono sviluppati in altre medio-grandi città negli stessi anni) è come se questa dimensione anonima desse vita a una specie di sfida con cui ti misuri. Il movimento di Nimbo verso il centro storico è un’occasione rischiosa per riuscire a darsi un nome, per conquistarselo, proprio perché nei quartieri nuovi questo non è possibile, c’è solo genericità. Una condizione che mi sembra contenere una grandissima potenza espressiva (Gabriele Basilico, in ambito fotografico, l’ha riconosciuta e rivelata magnificamente) e che Luigi ha saputo risvegliare conferendo a queste zone dignità narrativa.


Come nasce l’idea di rappresentare Il tempo materiale di Giorgio? Come si è articolato il vostro rapporto durante la realizzazione del graphic novel?

R.: Questo risveglio del graphic novel mi ha fatto venire voglia di misurarmi con questa forma di fumetto-romanzo che era in qualche modo diversa rispetto a quella con cui mi ero formato io, cioè quella del fumetto degli anni Ottanta, più legato alle riviste. Ultimamente c’è stato un exploit di graphic novel a carattere autobiografico, perché è giusto in fondo che si parli di ciò che si è vissuto e che si conosce meglio. Personalmente, non credo di aver avuto una vita così interessante da poter appassionare i lettori. Così l’incontro con il romanzo di Giorgio è stato straordinario perché mi ha comunque permesso di metterci qualcosa di mio: ho diretta esperienza della città di quell’epoca, quando avevo l’età dei protagonisti, era insomma la storia adatta per permettermi di affrontare il graphic novel, con la sua forza narrativa e la sua solida struttura a cui appoggiarmi.
Io e Giorgio non ci conoscevamo prima. Dopo aver letto la storia l’ho contattato per proporgli l’idea: in un primo momento avevo chiesto a lui di riadattare il testo, ma Giorgio, in un modo anche elegante, mi ha detto che non era interessato, che lasciava a me totale autonomia. Così ho avuto la libertà di pormi di fronte al graphic novel come un regista, come una sorta di Stanley Kubrick – forse il confronto è irriguardoso, ma mi aiuta a rendere l’idea – il quale non ha mai scritto un soggetto originale ma ha sempre adattato lavori di altri per fare film di cui comunque rispettava sempre il testo originario. Credo che fare l’autore sia un altro mestiere: ci sono casi di disegnatori che si rivelano deboli sulla storia. A me piace interfacciarmi con la storia di un altro perché mi trasformo in funzione di quella, riuscendo a far nascere qualcosa di nuovo, come un figlio che ha sia un padre che una madre. Il nostro rapporto quindi è stato bello perché lui mi ha dato totale autonomia, ma anche suggerimenti giusti al momento giusto. Ero infatti un po’ bloccato nella scelta del protagonista, che dalla lettura del romanzo immaginavo con una maggiore durezza, mentre nel graphic novel ha un volto un po’ più dolce che rende anche più credibile la sua evoluzione. Non c’è una trasformazione radicale e si riesce a comprendere meglio il suo ruolo all’interno di quel terzetto. Tutti e tre i personaggi mutano all’interno della storia, cambiando anche fisicamente. Ecco un altro grosso problema per un fumettista, perché a un certo punto della storia i protagonisti si rasano i capelli e la capigliatura aiuta moltissimo nella caratterizzazione e nel riconoscimento dei personaggi. È stato necessario lavorare molto sulla loro fisionomia per renderli ben identificabili durante tutto il racconto.

V.: Per aiutare Luigi nella rappresentazione di Nimbo gli ho consigliato di ispirarsi al protagonista di La pecora neradi Ascanio Celestini, un ragazzino che ha una fisicità tanto esile quanto seria. Non so perché scrivendo il romanzo immaginavo una specie di Thom Yorke da giovane, bellissimo nella sua irregolarità, occhio matto incluso. Fra l’altro in realtà all’inizio della scrittura pensavo che il protagonista fosse Scarmiglia, o meglio pensavo che il Nimbo che avevo in mente dovesse agire come nella storia agisce Scarmiglia. Via via mi sono reso conto che far coincidere l’io narrante con una figura così radicale, così ciecamente proiettata verso tutte le azioni, mi avrebbe tolto la possibilità espressiva di lavorare sull’esitazione. Ho anche capito che non mi interessava raccontare la febbrilità cieca del fanatico ma la maniera in cui il suo modo di procedere, i suoi passi, il suo ritmo, il suo inventarsi scopi, viene osservato da qualcuno che gli sta vicino, che condivide in buona parte la sua prospettiva ma che non è lui. È la posizione del secondo nella gara di corsa, che regola la sua andatura e per certi versi ha consapevolezza del proprio ruolo osservando la nuca di chi lo precede. Mi serviva quindi che l’io narrante stesse qualche passo indietro, in termini di capacità di azione, rispetto a una figura più sfrenata che invece è Scarmiglia, facendo dell’esitazione di Nimbo un tempo critico, un tempo da utilizzare per cambiare idea.
 


Giorgio, cosa hai provato quando hai visto la rappresentazione di quello che tu avevi in testa fatto da un’altra persona? Luigi è riuscito a interpretare e a dar vita a quello che tu avevi in mente?

V.: La sensazione è stata molto bella, anche se può sembrare strano vedere il lavoro che hai fatto riattraversato da un punto di vista forte come quello di Luigi. Considerato però che non ho nei confronti di quello che ho scritto un senso di proprietà, ero curioso di vedere in che cosa la lettura di Luigi aveva trasformato quello che avevo scritto. Fin dalle primissime tavole che Luigi mi ha fatto vedere ho capito che  non avevo davanti agli occhi la trascrizione o l’adattamento del mio romanzo ma una reinvenzione di quella storia. Come ho provato a dire nella postfazione del graphic novel mi sono reso conto che la lettura può essere un’esperienza autoriale tale da determinare una vera e propria riscrittura del testo così radicale da farti dimenticare la narrazione dalla quale ha avuto origine. Mi è dunque piaciuto confrontarmi con le differenze che la narrazione per immagini ha creato, forme di “distanziamento” che sono modi di reagire all’originale –che fra l’altro a quel punto non è più l’originale perché il libro di Luigi è un nuovo originale, una nuova matrice. Le volte in cui ho avuto davanti tavole in cui elementi secondari venivano sdoganati sprigionando la loro istanza embrionale e diventando una vera e propria forma, ero felice perché mi trovavo davanti al lavoro di qualcun altro che mi faceva scordare quello che avevo scritto.


Grazie a entrambi per la disponibilità e le risposte dettagliate.


(Giorgio Vasta – Luigi Ricca, Il tempo materiale, Tunué, 2012, pp. 160, euro 14,90)