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“Le effemeridi” di Stéphanie Hochet

di Iacopo Accinni / 28 marzo

«It’s the end of the world as we know it and i fell fine», cantavano i R.E.M. nel lontano novembre 1987, e potrebbe essere l’adeguato motivo da accompagnare alla lettura dell’ultimo lavoro di Stephanie Hochet, Le effemeridi (La Linea, 2012).

Il governo inglese ha annunciato un evento eccezionale per il 21 marzo. La fine? Apparentemente. E ciascuno la vive alla propria maniera: Il pittore Simon Black a Londra con la sua amante Ecuador; Alice insieme al suo primo amore; Tara, voce narrante, e Patty nella loro fattoria scozzese. Mancano tre mesi e allo scoccare della data fatidica, in quello che sarà l’ultimo passaggio tra l’inverno e la primavera, tutto finirà.

Con uno sguardo fotografico e una empatia sentimentale, Stephanie Hochet ci regala nel suo ottavo romanzo una polifonia di soliloqui e di destini, più che comuni, del tutto umani, che messi insieme vanno a completare un dipinto incompiuto, un quadro che si concentra unicamente sulla società odierna, la nostra, proprio nell’ora della fine, quando l’uomo è più debole.

È uno di quei romanzi fondamentali nella formazione generale di un autore e di un’autrice come la Hochet, un po’ maudite, un po’ indie, molto rock. Non vi è nulla di autobiografico, ma è un romanzo ugualmente sofferto e duramente partorito, dove dove l’uomo è rappresentato nei suoi aspetti più oscuri e negativi, antieroe contrapposto all’idea di uomo come eroe positivo. L’autrice, pertanto, è spinta da un perpetuo scavare nelle zone più buie dello spirito umano, nei suoi incubi ricorrenti poi non così inconsci.

In una parentesi pre-apocalittica farcita da una straripante creatività e da una scrittura pressoché perfetta, la Hochet ci diletta ancora una volta con l’estetica dell’assoluto e una essenziale metafisica della fine. Un Annuncio, sinonimo del nulla, di un traguardo e una catastrofe imminente, che obbliga l’uomo a riconsiderare la propria esistenza, la propria vita, le priorità che ci si è posti. Non vi è alcun limite alla fantasia, non vi è alcun elemento sovrannaturale e mistico. Qui, Dio non esiste.

Con i suoi continui riferimenti filosofici e letterari, Le effemeridi conquista per il suo incalzare, trascinando il lettore verso la conclusione. Temi come l’amore, il sesso, la morte, si aggrovigliano tra le ossessioni, i pregiudizi e le convinzioni dei personaggi. È una commedia, che, nella sua tragicità, non lascia più spazio ad alcun aut aut.

Tra pulsioni distruttrici e tensioni creatrici, tutti i personaggi coltivano una comune nevrosi e una demistificazione della morte di per sé. E allora, tra temi woolfiani e il dissacrante realismo di Bacon o di un urlo alla Munch, c’è chi come il pittore Black, nell’orrore della malattia che devasta i corpi, cerca di dipingere, ancora una volta, un odore.

Se vi è una cosa sicura è la data: 21 marzo. Il “certo” sta nella fine. Oserei dire, un romanzo atrocemente ottimistico. Per sapere in che cosa consiste l’Annuncio, bisogna leggere l’ultimo romanzo di Stephanie Hochet e sperare in qualche cosa, poiché la speranza è sempre l’ultima a morire.

 
(Stéphanie Hochet, Le effemeridi, traduzione di Monica Capuani, La Linea, 2013, pp. 160, euro 14)