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“Il diciottesimo compleanno”: a tu per tu con Riccardo Romagnoli (seconda parte)

di Dario De Cristofaro / 13 aprile

La prima parte dell’intervista a Riccardo Romagnoli si chiudeva con alcune considerazioni dell’autore sulla città di Roma, nella quale è ambientato il suo romanzo d’esordio Il diciottesimo compleanno. Ma le domande e le risposte continuano.


Il diciottesimo compleanno è il tuo primo romanzo: un esordio particolare, a mio giudizio, perché se da un lato si nota, attraverso i continui rimandi testuali, una conoscenza matura della cultura occidentale classica, dall’altro lato si ha l’impressione di una scrittura come un fiume in piena, che porta con sé pietre preziose ma anche detriti e fango, più da romanzo scritto in gioventù. Ci puoi dire qualcosa sulla stesura di questo romanzo?

Forse è utile partire dall’inizio, cioè da quando ho cominciato a scrivere. Avevo poco più di 13 anni e feci delle poesie, che, almeno io, chiamavo tali ma che oggi mi sembrano prose poetiche. Dopo qualche settimana (era estate e quindi c’era vacanza) scrissi le prime pagine di ciò che avrebbe dovuto essere un romanzo. Negli anni successivi tentai di raccontare storie ma non uscivano: erano vivide finché rimanevano dentro di me e poi, appena cercavo di farle venir fuori, appassivano. Un fatto importante avvenne nel 1982: una sera (vivevo ancora a Firenze) andai al cinema a vedere Ricche e famose, l’ultimo film di G. Cukor. È la storia di due scrittrici, l’una (famosa per i suoi romanzi rosa a grossa tiratura) è interpretata da Candice Bergen, l’altra (famosa per i suoi romanzi di introspezione e di ricerca) è interpretata da Jacqueline Bisset. È un film sullo scrivere e sull’essere amici. Sentii, allora, che sarei stato uno scrittore. Trascorsero degli anni, nel mezzo ci fu il servizio civile a Roma, un lavoro a Livorno. Infine arrivai a Milano e questa città (dove vivo adesso) ha permesso alla mia scrittura di manifestarsi. Il mio primo testo narrativo (escludendo le prove adolescenziali che possono tuttalpiù essere considerate degli abbozzi) è nato qui: un racconto. L’estate successiva ci fu un romanzo. A rileggere sia il racconto che il romanzo, oggi, provo una certa vergogna perché sono (ed erano) di una mediocrità fondamentale. Però ero venuto allo scoperto. Conobbi Giuseppe Pontiggia, a cui presentai un nuovo romanzo (quello che potrei veramente considerare il romanzo numero 1, nell’ordine temporale). Pontiggia fu il primo a dirmi: «Lei è uno scrittore». Devo molto ad Antonello Nociti e alla sua Casa Zoiosa (un centro culturale attivo a Milano nella seconda metà degli anni ’80) dove ebbi modo di frequentare alcune persone con cui fondammo il Quinario e con cui ci confrontammo sulla scrittura come in una palestra.
Credevo di essere arrivato. Ma non fu così. Scrissi romanzi e raccolte di racconti. Ascoltai suggerimenti. Feci e disfeci. Contattai case editrici, scrittori, editor, lettori. Niente di niente. A parte qualche generico commento positivo i miei testi venivano sistematicamente rifiutati.
Decisi di smettere. Avevo scritto un testo che mi aveva particolarmente impegnato. Si intitola PUS – Romanzo dermatologico. Le reazioni furono ancora più negative di quanto non lo fossero state in precedenza. Mi dissi: Basta!
Per quasi due anni mi dedicai ad altro. Ma, dentro, sentivo sempre la voglia di raccontare e di creare storie. Così, un giorno, tornai a dialogare con me stesso. Riccardo, mi dissi, se ami scrivere fallo senza pensare a pubblicazioni, eventuali riconoscimenti, riscontri di pubblico e critica. Vai avanti e scrivi per te e per quei quattro gatti che forse tra gli amici vorranno ascoltarti.
Quindi, da lì, prese l’avvio Il diciottesimo compleanno (che nella sua versione originale avevo intitolato Vaga gioventù animale), un romanzo pensato per me, costruito per aveve come lettore me stesso. Mi sentivo pieno di una libertà inebriante. Non c’erano paletti e reticoli. Non c’erano cose da dire e altre da tacere. Non c’era il gusto del pubblico. Non c’era l’accondiscendenza ai gusti letterari. C’ero io col mio foglio di carta.
Questo lungo prologo credo spieghi cosa sta dietro Il 18esimo. Ci sta una solitudine immensa, non in quanto uomo ma in quanto scrittore. Ci sta un grande fiume che, bloccato per anni, poi lo si lascia defluire (se non fosse troppo volgare direi che somiglia a quando si orina dopo aver bevuto molto e dopo aver molto trattenuto!!!!) Ho voluto che immaginazione (tantissima) e realtà si fondessero in un allucinatorio circo di passione e di sangue, di eccessi e di fascino, di sapere e di morte. Una sfida contro una letteratura rassicurante e zuccherina, ma una sfida non prodotta con l’intento di “scandalizzare” perché ero convinto che Il 18esimo sarebbe rimasto chiuso in un cassetto, forse destinato a qualche benevolo postero.
Il 18esimo, allora, è un romanzo d’esordio ma non giovanile benché della giovinezza e del suo slancio abbia l’ebbrezza fulminante, e ingenua talvolta, lo sfogo irruento e, forse, troppo scioccante, e per questo, forse, imperfetto (se l’imperfezione è un difetto comunque! Galileo diceva che la terra se fosse perfetta, come sostenevano gli aristotelici e cioè fosse incorruttibile nello stesso modo di una sfera di etere, sarebbe un “corpaccio” inutile, morta e senza alcun interesse).


Giorgio Vasta, in un articolo uscito su La Repubblica il 30 dicembre scorso, ha parlato di Il diciottesimo compleanno e di altri tre titoli – Tutto cospira a tacere di noi, di Daniela Ranieri; La dissoluzione familiare, di Enrico Macioci; L’impero familiare delle tenebre future, di Andrea Gentile –, come di romanzi che «riscoprono la forza creativa della letteratura», una specie di «quinto punto cardinale». Hai avuto modo di leggere i libri dei tuoi tre “compagni di viaggio”? Che opinione hai della narrativa italiana contemporanea?

Conosco i romanzi di Ranieri, Macioci e Gentile. Credo che Vasta ci abbia “selezionati” perché (innanzitutto) abbiamo dato una priorità alla lingua e alla sua forza espressiva. Fa piacere che, dei quattro romanzi, due siano stati pubblicati da case editrici importanti (come dimensioni), cioè Ponte alle Grazie e ilSaggiatore. Questo vuol dire che c’è interesse a far emergere scrittori che non avranno un pubblico vastissimo ma che però potranno, specialmente grazie all’aiuto promozionale degli uffici stampa, incunearsi e trovare una propria collocazione.
Non leggo molto dei contemporanei italiani, se si escludono i testi di Moresco che ritengo tra i più interessanti in assoluto nell’attuale nostro panorama letterario.
Non lo faccio per snobismo. Ma è che trovo poche consonanze con altri autori. Sono cresciuto (come scrittore) nell’isolamento. Come dicevo prima, ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2012, avendo iniziato a scrivere da almeno venti anni (se non si considerano le prove adolescenziali.) Di norma uno scrittore pubblica un libro. Riflette sull’accoglienza avuta. Ascolta il parere di editor, lettori, editori, altri scrittori, critici. Il secondo romanzo nasce da una rielaborazione dei giudizi che si sono avuti, e così via per i libri successivi. Io invece sono andato avanti a scrivere senza un confronto di questo tipo.


La domanda finale, come d’obbligo, riguarda i tuoi progetti di scrittura futuri: stai già lavorando a un secondo romanzo? Ci puoi anticipare qualcosa?

È pronto il secondo romanzo, il terzo, il quarto, il quinto…
Antonio Moresco (di cui è appena uscito per Mondadori La Lucina) ha impiegato quindici anni per vedersi riconosciuto come scrittore e per pubblicare il suo primo romanzo. È stato Moresco il tramite che mi ha fatto arrivare all’esordio con Transeuropa. Amo la sua scrittura, piena e travolgente. Per lui sentivo anche una “simpatia” perché (prima di pubblicare) mi dicevo: Se c’ha impiegato lui quindici anni posso farlo anch’io! (benché mi crescesse un’ansia sempre maggiore man mano che gli anni passavano e ormai appunto io fossi arrivato a venti anni!)
Parlando con Moresco, dopo che ci siamo conosciuti e gli ho fatto leggere il mio 18esimo, mi ha detto che molti dei romanzi che ha pubblicato dopo Clandestinità (suo romanzo d’esordio) li aveva scritti in quel lungo interregno durante il quale aveva lavorato ai suoi romanzi e nessun editore gli aveva dato ascolto (è da leggersi Lettere a nessuno di Moresco).
Vale la stessa cosa per me. Ho un numero tale di romanzi già fatti che se riuscissi a pubblicarli, diciamo uno ogni due anni (come sono in genere i tempi medi) arriverei tranquillamente ai miei ottant’anni!!!!
Era solo per impostare il problema! Nel concreto… ho appena finito un nuovo romanzo (dal titolo provvisorio Torre del Lago) ma deve essere rivisto e quindi ha bisogno di restare per qualche mese a “macerare”.
Il “secondo” romanzo che sto cominciando a far girare presso gli editori si intitola Duplice piacere di risposta (e di fatto è l’ultimo romanzo “finito” in ordine di tempo).
Credo che sia un romanzo più soft del 18esimo. Racconta, su due diversi piani (temporali e linguistici) la storia di Livio e di Oscar Dreyser.
Livio è un ragazzo 19enne che, venendo a sapere della morte di uno zio di cui non sapeva neppure l’esistenza e che gli ha lasciato una casa a Monterosso (Cinque Terre), abbandona Buenos Aires (dove vive – non avendo più genitori – in un istituto religioso). Arriva a Monterosso e qui, attraverso libri, appunti, manoscritti, ricostruisce la vita (reale o immginaria) dello zio. Ai capitoli che narrano di Livio a Monterosso si intrecciano i capitoli in cui è ripercorsa la vita dello zio, Oskar Dreyser, nato nel 1920. Livio incontra amici e amiche. Si sposa con Giacinta e ha molti figli. È una persona solitaria che vive le sue esperienze più importanti in contatto col mare. Invecchierà a Monterosso, dopo aver saputo chi fossero i suoi genitori e come erano morti. La sua malinconia e tristezza cresceranno col passare degli anni. La storia di Oskar attraversa il 1900, passando dal fascismo alla seconda guerra mondiale fino al dopoguerra. Oskar appartiene a una ricca e importante famiglia di origini olandesi e argentine. Vive e cresce in Italia. Partecipa alla guerra. Si trasferirà a Firenze e poi, in un viaggio in Patagonia, incontrerà Maddalena che diventa sua moglie. Maddalena, dopo alcuni anni, muore di cancro. Oskar girovaga per il mondo, preso dal dolore, finchè non approda a Monterosso dove morirà. L’intreccio, di per sé, è ben poca cosa (credo). Mi piaceva narrare di due vite, con due stili diversi. La vita di Livio è in prima persona con una lingua fortemente frammentata, dove i puntini di sospensione (molto abbondanti e molti di più dei soliti e canonici 3 puntini) sono questa linea di demarcazione sopra o sotto la quale si pone la comunicazione che a volte scompare (e ci sono i puntini) e a volte torna su e allora ci sono le parole. Comunque la scelta sintatticogrammaticale permette sempre di cogliere il significato globale. La vita di Oskar è raccontata attraverso i titoli di cinquantuno testi letterari che Livio trova nella biblioteca dello zio e che servono, a Livio, per tracciare le tappe fondamentali dell’esistenza di Oskar. Qui siamo in terza persona. Lo stile è ampio e pieno (rispetto al “vuoto” o alla “leggerezza” della scrittura di Livio), ricco e sinuoso.
Sto anche cercando di far conoscere i miei racconti. Alcuni racconti di viaggio sono stati pubblicati su www.nottola.it.


(Il diciottesimo compleanno, Riccardo Romagnoli, Transeuropa, 2012, pp. 176, euro 12,90)