Flanerí

Libri

“Una specie di solitudine” di John Cheever

di Luigi Ippoliti / 26 aprile

Una specie di solitudine, ovvero i diari di John Cheever, scritti dalla fine degli anni ’40 agli inizi degli anni ’80.

Le ansie, le paure, le crisi: tutto sotto una lente d’ingrandimento che l’autore di Bullet Park ci presta e con cui facciamo i conti. Con cui dobbiamo fare i conti. Ma fino a dove possiamo spingerci? Abbiamo le capacità per condividere certi spazi dell’esistenza con lui? Dobbiamo essere istruiti prima di tutto questo?

«Quando il principio dell’autodistruzione si insinua nel cuore non è più grande di un granello di sabbia. È un mal di testa, una lieve indigestione, un dito infetto; ma poi perdi il treno delle 8.20 e arrivi tardi all’appuntamento per chiedere il fido. Il vecchio amico che vedi a pranzo d’un tratto ti dà sui nervi e per sforzarti di essere simpatico bevi tre cocktail, ma a quel punto il giorno ha perduto ogni forma, motivo e significato. Per cercare di ridargli senso e bellezza bevi troppo all’aperitivo parli troppo ci provi con la moglie di uno e finisci per fare qualcosa di stupido e osceno e al mattino vorresti essere morto. Ma quando cerchi di risalire a come sei arrivato a questo abisso trovi soltanto un granello di sabbia».

Riflessioni sparse, che non seguono particolari sequenze logiche, se non cronologiche (il libro è diviso in tre sezioni: “La fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta”, “Gli anni sessanta”, “Gli anni settanta e i primi anni ottanta”).  La possibilità, forse un po’ cinica ed egoistica, avendo gran parte del lavoro già fatto, di godere dei dubbi strazianti dell’esistenza, nella sua accezione più ampia e negli aspetti più insignificanti, attraverso uno dei più grandi scrittori americani, rimanendo parzialmente incolumi; e lui raggiunge altezze vertiginose della realtà, osservando le deformazioni, le mostruosità di cui è permeata, e le fugge tramite la scrittura – la fortuna di possedere un talento del genere per evitare la pazzia – e l’alcol.

Vengono messe sul banco la sua dipendenza dal bere e l’inadeguatezza nel non saper affrontare le giornate da sobrio. La necessità di alzarsi la mattina pensando di buttare giù una bottiglia di gin.  I cocktail party alla Fitzgerald, le piscine simbolo della middle-class vissuta e descritta con maestria dall’autore e attraversate ne Il nuotatore, viaggio verso la disillusione in una società dove i rapporti interpersonali si fanno sempre più oscuri. Cosa pensasse della propria scrittura e il suo bollarsi scrittore di seconda classe, lontano anni luce da quel Saul Bellow che lo stregò portandolo a pensare d’essere un inetto e un incapace. Le passeggiate a Roma con la famiglia e l’eco del suo Il rumore della pioggia a Roma. La sensazione di capire con quale materiale abbia tirato su le mura della sua Falconer e di come in qualche modo abbia deciso di invischiarvisi, pronto a scontare la pena della vita. I treni che partono dalla campagna e arrivano a New York, argomento tanto caro all’autore definito dal New York Times «il Čechov d’America». Ma anche l’amore sconfinato per la moglie in conflitto con le assillanti pulsioni omosessuali difficili da domare, e le complesse dinamiche della famiglia da gestire: «Sabato mi sento bene, mi sento finalmente me stesso. Ma Mary è infelice. Ogni angolo e superficie della vita sembra frustrarla e irritarla. Inveisce contro il tacchino e inveisce contro il purè di patate. Io sono di buon umore e contento dei bambini e meglio mi sento e più sono consapevole della sua infelicità. Dopo la chiesa faccio un commento rozzo e sciocco e lei scoppia in una pioggia di lacrime. E penso che non posso riparare di nuovo le cose, non c’è niente che possa fare o dire. Il punto non è più la mia felicità, il punto è proteggere i bambini».                 

Una voce capace di mitizzare la routine della vita, le angosce della quotidianità e gli eventi piccoli, i brevi attimi di felicità. Un’opera di una potenza devastante, che può essere considerata la mappa geografica dell’anima dell’autore, una sorta di Bibbia da cui attingere in continuazione, senza riserve.


(John Cheever, Una specie di solitudine, trad. di Adelaide Cioni, Feltrinelli, 2012, pp. 504, euro 20)