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“Il cantiere” di Juan Carlos Onetti

di Giulia Zavagna / 18 luglio

Il cantiere dell’uruguaiano Juan Carlos Onetti (Edizioni SUR, 2013) esce per la prima volta nel 1961, mentre il resto dell’America Latina è sul punto di aprirsi a quel realismo magico che avrebbe da lì a poco definito letterariamente l’intero continente. «Nessuno meno indicato di Onetti per partecipare a qualcosa di così spettacolare come un boom letterario […]. Sembra uno dei suoi stessi personaggi, quasi privi del solito passato che spiega il presente, che si lasciano raccontare, invece, da una serie di gesti essenziali portati a termine in un presente dubbioso», leggiamo nella prefazione di José Donoso al volume, tradotta da Violetta Colonnelli, che ci introduce nel migliore dei modi all’universo onettiano. Nulla di più vero e necessario, poiché in pochi casi accade, come in questo, che lo scrittore stesso sia pervaso dalla propria opera, al punto da confondervisi, da sembrare fatto della stessa sostanza che riempie le sue pagine: in questo caso, un’atmosfera oscura e decadente, non priva di lucidità e ironia, e soprattutto della chiara consapevolezza dell’inintelligibilità del reale.

Larsen torna a Santa María – la Yoknapatawpha onettiana – cinque anni dopo essere stato bandito dalla zona per aver aperto e condotto un postribolo suscitando un’indignata protesta da parte degli abitanti della città (Onetti ci racconta quest’episodio nell’indelebile Raccattacadaveri, apparso nel 1964). Deciso non tanto a vendicarsi, quanto più a dimostrare di poter condurre una vita onesta e soddisfacente, Larsen si stabilisce a Puerto Astillero, a un’ora da Santa María, e si fa assumere da Jeremías Petrus come direttore del cantiere navale locale, in rovina da anni. Il suo progetto non prevede solo di essere al posto giusto nel momento in cui le sorti del cantiere si risolleveranno e i debiti verranno rimpiazzati dall’antico splendore, ma anche di conquistare Angelíca Inés, figlia di Petrus, pianificando quindi di ereditare la fortuna di famiglia e sistemarsi. Il cantiere, e i pochi individui che lo abitano e fingono di tenerlo in vita, non è però che una carcassa vuota e arrugginita, l’involucro dei sogni sbiaditi di Petrus, che instaura una commedia assurda di cui Larsen si troverà a tirare le fila, autoproclamandosi sovrano di un regno in decadenza, fatto di vecchie carte impolverate e rottami venduti illegalmente per pochi spiccioli.

Il piano di Larsen è assurdo e infondato, fin dall’inizio, e da tutti i punti di vista: il degrado non avvilisce solo gli affari, è una patologia che contagia altrettanto ferocemente oggetti, luoghi e persone. Puerto Astillero è un «buco immondo […], un ultimo rifugio assurdo e senza speranza»; il cantiere non è altro che «mattoni, lamiere, ruggine, degrado»; Angelíca Inés è una demente, una pazza. Nel paradosso che regge il tutto, anche le azioni più semplici e quotidiane perdono la loro vera utilità: «La fame non era tanto voglia di mangiare quanto la tristezza di essere solo e affamato, la nostalgia di una tovaglia pulita, bianca e stirata, con minuscoli rammendi, con macchie recenti; nostalgia di scricchiolii di pane, piatti fumanti, l’allegra volgarità dei compagni».

Chi se non Larsen – paria, persona non grata, reietto – poteva assumere una tale farsa come impiego, come ultimo riscatto? Con una scrittura magistrale, fatta di oggetti, netti sostantivi, e un’aggettivazione disarmante nella sua semplicità ed efficacia – e con l’impeccabile traduzione di Ilide Carmignani – Onetti poco a poco dirada la nebbia in cui i suoi personaggi sono avvolti, e si fa ben presto chiaro che quella di Larsen è una maldestra e disperata danza con la redenzione, con l’estremo bisogno di dare un senso, una giustificazione, anche fasulla, al suo essere nel mondo: «Il mormorio della pioggia parlava di rivincite e meriti riconosciuti, proclamava la necessità di un evento definitivo che desse un senso agli anni morti».

Se al lettore può restare il dubbio sulla sua consapevolezza dell’assurda immobilità in cui è invischiato, il fallimento di Larsen è chiaro fin dall’inizio. E questo perché in Onetti la corsa verso un futuro roseo e soddisfacente non è solo utopistica, è ben più semplicemente impossibile, irreale. A darci una misura dell’incombenza del passato di ogni personaggio – che campeggia su ogni possibilità di sviluppo, di apertura: di futuro, appunto – è la voce narrante (a tratti onnisciente, a tratti nelle parole del dottor Díaz Grey, già incontrato ne La vita breve), sempre indagatrice, cinica, impietosa.

Se in qualcosa Larsen riesce, è nell’incarnare un grande personaggio, memorabile nella sua umanità e letterarietà, eternamente sconfitto eppure immortale. Da questo punto di vista, Il cantiere non è solo un romanzo attuale a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, ma resta una porta d’accesso privilegiata all’universo onettiano tutto che, sulla scia maestra di Faulkner, si fonda su un microcosmo asfissiante e perfetto: Santa María, dove tutto «marcisce e si guasta».
(Juan Carlos Onetti, Il cantiere, trad. di Ilide Carmignani, SUR, pp. 238, euro 15)