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“Dora. Un caso clinico” di Lidia Yuknavitch

di Laura Porceddu / 23 ottobre

Se a prima vista Dora. Un caso clinico (Indiana, 2013) appare una semplice riscrittura con ambientazione contemporanea di uno dei più celebri casi di Sigmund Freud, pubblicato nel 1905, il romanzo di Lidia Yuknavitch è in realtà un’interessante rivisitazione della psicanalisi vista dal punto di vista di una ragazza, un’adolescente che affronta una terapia volutamente paradossale. Pur pescando a piene mani dal report di Freud, da cui “copia” i sintomi più evidenti e le interpretazioni psicanalitiche (fortunatamente oggi ampiamente superate!) del dottor Sig, come l’ha rinominato la protagonista, l’autrice riesce ad attualizzare la vicenda facendo emergere importanti problematiche del mondo contemporaneo.

Per farlo sposta il punto di vista, non più la narrazione scientifica di un medico che descrive l’evolversi della terapia, ma una sorta di diario, racconto in prima persona dalla protagonista, una Ida Bauer che descrive la sua difficile situazione famigliare, tra il padre fedifrago e la madre clinicamente depressa e costantemente impasticcata, che l’hanno portata a crearsi un’identità che può controllare, in risposta a una vita di cui non può decidere nulla. Perché troppo sensibile, in un mondo ipocrita e bugiardo, per accettare la “facciata” che le viene proposta, esposta in una continua lotta con il suo psicoterapeuta e la strenua opposizione alla mercificazione della sua storia, vicenda che caratterizza la seconda parte del romanzo, fino ai limiti dell’assurdo.

A contraltare di questo partito così ostile si situa la famiglia che Ida si crea in alternativa a quella di nascita: un gruppo di amici fidati, dal carattere eccentrico e paradossale tanto da diventare delle vere e proprie macchiette, che incarnano, pur nell’estremizzazione dei tratti, alcuni tipi umani che escono dall’omologazione nel tentativo di esprimere se stessi. Strumento imprescindibile, poi, diventa la tecnologia, resa accessibile a chiunque, anche a un gruppo semplici, seppur svegli, adolescenti come quello di Dora, che improvvisano operazioni ai limiti dell’inverosimile.

Leitmotiv del racconto è, infatti, l’eccesso: eccessivo è il comportamento di Ida, che si spinge fino all’afonia indotta e all’autolesionismo; eccessiva è la terapia del dottor Sig, così morbosamente concentrata sulla sfera sessuale; eccessivo è il tentativo di svendita del suo caso sotto forma di reality show; eccessivo è, talvolta, il linguaggio. Con questo paradosso e questo gusto per l’esasperazione emergono l’inconsistenza e la vanità dei mezzi offerti per la risoluzione dei disagi della nuova generazione, a cui viene proposta una via di salvezza del tutto inefficace e a cui non rimane altro che salvarsi da sola, lasciata alla deriva in un mondo che continua ad adottare vecchie categorie e vecchi schemi non più applicabili alla società che si è evoluta così velocemente.

(Lidia Yuknavitch, Dora. Un caso clinico, trad. di Costanza Prinetti, Indiana, 2013, pp. 244, euro 17,50)