Flanerí

Altre Narratività

Dopo la partenza

di Carlo Zambotti / 9 gennaio


Autostrade, strade e straducole, verdi e ruggine, si srotolavano fra monti di terra e sassi nell’oro della fine quotidiana. Una testa di gigante accesa sbucava dall’orizzonte per ingoiare l’isola-balena che volava riflessa nell’azzurro di un cielo acqueo. Celeste tanto grande da sostituire il mondo, almeno per il tempo della visione, per un attimo, per sempre. Fiammate inviolavano altopiani aridi, mistici, esotici. Torte di mattoni rosa e stucchi bianchi e riccioli di burro e fronzoli architettonici fronteggiavano muraglie grigie e guglie appuntite e merli di pietra.
E lui non si accorgeva di niente, guidava.
Teneva il volante nella maniera corretta, le mani sulle dieci e dieci. Velocità costante. Geometrico incedere nel traffico. La strada intanto andava, avanti.
C’era stata un’invasione di nebbia qualche giorno prima, in paese. «Non è nebbia, sono nuvole» gli avevano spiegato. C’era stata un’invasione di nuvole qualche giorno prima, in paese. La realtà era diventata un foglio di carta bianca tutto da scrivere. O da leggere. I contorni del mondo, sfocati. I confini, sfocati. I limiti, sfocati.
«Vado a fare una passeggiata» aveva annunciato.
«Attento a non perderti» gli avevano risposto.

Aveva scelto una strada in salita, così le gambe si abituavano subito al peggio e il sudore, premio della fatica, non tardava a palesarsi. E così si era arrampicato tra le case affacciate sulla strada, poi tra quelle nascoste, poi tra quelle rintanate ancora più dietro, poi anche quelle erano sparite, così come erano comparse, nella nebbia. Nelle nuvole. E poi i primi cespugli, i prati, la luna accesa, su, ingigantita dal filtro di nebbia. Di nuvole. E poi gli alberi. E i fruscii della vita, fra le foglie, e colpetti improvvisi di cose che cadevano, sbattevano, venivano lanciate, respiravano. Lui e le sue gambe andavano, lanciate in una direzione sempre definitiva, per ora, decisa dall’interesse del momento. Dallo stato d’animo. Dall’intuizione. Dal caso. E sotto gli alberi faceva sempre più buio, solo qualche lama di luce diafana riusciva a tagliare l’intrico dei rami per cadere fino a terra, nelle nuvole, nel bosco. Su di lui che camminava e sudava, aggiungendo vapore al vapore. Le nuvole sono vapore? La nebbia sì. O no?
Era così facile sparire, dimenticarsi di tutto l’apparato pensante e camminare punto e basta, animale fra animali, nuvola nella nebbia, o insomma, nebbia nella nuvola o nuvola fra le nuvole o quel che è. Dimenticarsi delle parole, perché non si può mai davvero descrivere qualcosa come veramente lo si vive. A nessuno, nemmeno a se stessi. Parola è parabola. Parabola è favola. Favola è menzogna. Parola è menzogna. Parlare è mentire. Non si può tradurre il pensiero in parola. Mai precisamente. Solo per approssimazioni più o meno buone.
«Tra quello che penso e quello che dico c’è di mezzo un luna park» aveva detto qualcuno, una volta, da qualche parte.
Non si può mai essere certi di che cosa una parola possa significare per qualcun altro. Si può provare, si può scommettere e certo, Buongiorno non ha molte sfumature di significato o utilizzo, è un augurio. Forse. Dipende. È una parola con cui si può star tranquilli, comunque. Ma Famiglia o Senso o Sovranità o Aspirazione sono parole troppo ampie per essere riempite ogni volta del loro intero significato. E così capita che per due persone la stessa parola significhi due cose diverse. Perché ogni testa pensante, poi parlante, sceglie il pezzettino di significato che le somiglia di più e lo usa. Pretendendo, ingenuamente, involontariamente, innocentemente, che sia quello e solo quello il significato intero della parola.
Illusioni.
Non come le nuvole.
«Respiro nuvole» aveva pensato.
Poi si era fermato dove stava, si era accucciato e aveva infilato le mani nella terra bagnata, sotto il muschio e il sottobosco. Aveva lasciato lì i suoi pensieri. Poi aveva ricominciato a camminare.
L’istrice lo sapeva, lo sapeva e basta. Era spuntato dalla verzura a bordo strada, un mostricino col muso da topo e una coda di spine. Immobile lo aveva osservato avvicinarsi, immobile lo aveva osservato allontanarsi. Non aveva usato parole, neanche una. Poi un salto nella notte ed era sparito, assorbito dalle sue cose, che senza bisogno di pensare doveva fare. Fare. Come camminare. O come tutto il resto. Tranne pensare. Pensare non è fare. Parlare è fare? Da un certo innegabile punto di vista sì, ma lui credeva di no. Camminava.
Qualcosa gli veniva incontro, qualcosa che veniva da su e andava verso giù. Non era un istrice. Era qualcos’altro. Era qualcuno. Qualcuno che si fermò di fianco a lui, nel momento in cui chi sale supera chi scende e viceversa. Una scossa, la respirazione che cambia, il cuore che salta qualche battito. Il silenzio. Le nuvole. Il bosco. Il muschio umido. Si toccano, prima le mani. Lentamente. Poi si avvicinano. Il calore di un altro corpo, di due corpi, di un corpo di due. La vita nella pelle, linea di confine fra il dentro e il fuori, tra due fuori e due dentro. Curiosità mai paga di qualcuno che non sia lui, il solito se stesso, ma un altro, che viene dalle nuvole. L’alito fresco del bosco bagnato, la terra addosso, fra i vestiti inutili, cercare degli occhi. Trovarli. Aprirli e chiuderli, vederli e vedersi.
Fare l’amore è fare.
E lui non si accorgeva di niente, guidava.