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Cinema

“All Is Lost” di J.C. Chandor

di Francesco Vannutelli / 31 gennaio

Il tema dell’uomo, inteso come essere umano, che si trova solo ad affrontare la natura, i suoi spazi, i suoi pericoli, le sue enormità, è un tema classico caro a Hollywood da sempre che nell’ultimo anno circa ha trovato nuova linfa per ripresentarsi sullo schermo. Si è iniziato con Vita di Pi di Ang Lee per proseguire, in una forma inedita, con Gravity di Alfonso Cuarón, e finire ora con All Is Lost di J.C. Chandor, storia del naufragio silenzioso di Robert Redford passata all’ultima edizione del Festival de Cannes.

Se Ang Lee, fedele al romanzo di Martel, aveva posto il suo naufrago su una scialuppa con la sola compagnia di una tigre, e Sandra Bullock aveva il conforto della guida quanto meno ideale del Kowalski di George Clooney nel suo galleggiare nello spazio, il navigatore senza nome di Robert Redford è totalmente solo, al punto che è l’unico personaggio ad apparire sullo schermo per tutto il film. Solo e silenzioso. Praticamente non parla mai, se non per lanciare un SOS alla radio e affidare il suo congedo allo spettatore, all’inizio.

Procedendo con ordine, un navigatore in traversata solitaria nell’Oceano Indiano viene colpito da un container cinese alla deriva mentre sta riposando sotto coperta. L’impatto apre una breccia nello scafo della barca che il silenzioso marinaio provvede a rattoppare alla meno peggio, ma radio e cellulare sono andati fuori uso nell’impatto e nel successivo allagamento, così come l’impianto elettrico. Determinato comunque a trovare un modo per cavarsela, l’uomo viene sopraffatto da una tempesta che lo costringe ad abbandonare il natante e trovare rifugio in un gommone gonfiabile di emergenza. Con poche provviste e alcuni strumenti di emergenza, il navigatore senza nome cercherà ancora una salvezza da qualche parte nella vastità del mare. La sua lotta contro il mare è silenziosa, senza imprecazioni urlate al vento (se non in un comprensibile momento di sconforto), senza preghiere al cielo. C’è solo il respiro, affannato, stanco, ma risoluto, a riempire un silenzio che non è rassegnazione alla sventura invincibile, ma determinata volontà di opporsi agli elementi del disastro, di arrivare con i pochi mezzi a disposizione a neutralizzare il fantasma della morte che lo attende in fondo all’oceano.

La scelta dello splendido settasettenne Robert Redford come protagonista di questa impegnativa, massacrante impresa filmica (neanche una scena girata sulla terra ferma) evidenzia il messaggio di Chandor, anche sceneggiatore, di rifiuto della società contemporanea e delle sue generazioni quasi totalmente digitalizzate, probabilmente incapaci, è lecito pensarlo, di applicare pazienza e sapienza per contrastare avversità colossali. L’anziano marinaio, comunque non professionista, ma semplicemente previdente, è capace di una manualità e di un multiforme ingegno che l’esperienza ha abituato a essere creativi e immediati.

Sprovvisto di un nemico o di un sogno, al contrario di Achab o del vecchio hemingwayano, il personaggio senza nome di Chandor galleggia per l’alto mare aperto lottando esclusivamente per se stesso e per la sua sopravvivenza, reagendo paziente, quasi come in una partita a scacchi, alle disavventure che si sommano una sull’altra.

J.C. Chandor si era fatto notare all’esordio nel 2011 con Margin Call con uno stile ben diverso da quello di All Is Lost, con un cast enorme (Kevin Spacey, Jeremy Irons, Paul Bettany, Demi Moore, Zachary Quinto, Stanley Tucci) chiuso quasi sempre in un grattacielo e molte, moltissime parole a raccontare il crollo di un colosso finanziario. Ora sono gli spazi a prevalere sugli attori, il silenzio a coprire le parole. È un cambio radicale e non semplice che a Chandor riesce solo in parte. L’immensità del mare ostile e la lotta determinata di Redford tendono a ripetersi uguali a se stesse e dopo la falla, la tempesta e il naufragio è la noia a scorgersi a tratti tra i flutti.

(All Is Lost, di J.C. Chandor, 2013, drammatico, 106’)