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Le api di Antonio Porta

di Carlo DAlessio / 3 novembre

Ora che anche Edoardo Sanguineti è scomparso, la stagione della Neoavanguardia sembra allontanarsi definitivamente, perdendo la sua consistenza corporea e testimoniale, per trasformarsi in un reperto destinato a trovare un posto nelle storie letterarie del XX secolo. Proprio per questo forse vale la pena fermarsi a riflettere ancora sul senso globale dell’azione promossa dal Gruppo ’63, l’ultimo movimento letterario italiano nato sulla base di un progetto culturale, discutibile ma autentico, non prodotto dalle logiche di un’industria editoriale che con cadenze regolari crea arbitrariamente mode e tendenze stagionali per stimolare i consumi. Molto è stato scritto nei mesi appena passati sul percorso di Sanguineti. Un passaggio inevitabile ma che rischia di ridurre la profondità di campo dell’esperienza dei Novissimi – soprattutto per quel che riguarda la dimensione poetica del gruppo –, di concentrarla esclusivamente sul tracciato magmatico dell’autore di Laborintus. Mentre altre voci, altre posizioni altrettanto vitali meritano di ritrovare il giusto spazio all’interno della riflessione critica. Tra queste, in primo luogo, quella di Antonio Porta.

L’epoché del giudizio è ciò che caratterizza buona parte della sua poesia, anche se l’idea di un rifiuto della soggettività, di cui gran parte della critica che si è occupata di lui ha scritto, deve essere circostanziata. In realtà l’io e il soggetto ci sono nella poesia di Porta: sia in quella giovanile di Calendario, sulla linea di un lirismo spento e in tono minore, ripreso dalla linea lombarda e da Sereni in particolare; sia in quella matura che affianca le vicende del Gruppo ’63 per poi allontanarsene negli anni ’80.

Non solo la tensione civile di Europa cavalca toro nero o di L’aria della fine, in cui l’io si fa voce di un ethos civile minacciato dalla omologazione violenta della tecnocrazia capitalistica, ma anche la scelta di far deflagrare sulla pagina le contraddizioni del reale, in Cara e Metropolis ad esempio, attraverso l’impiego incessante dell’ossimoro e la carica distruttiva della elencazione dei frammenti percepiti, rispondono a un impulso tipicamente espressionista, polemico e iconoclasta.

Il singulto caleidoscopico di Aprire ad esempio, lo smontaggio e la ricomposizione desultoria delle immagini non partono da un assunto scientifico e neutrale, da una perizia chirurgica del referto oggettivo. Quello che in Sanguineti è ironia e visione strategica, in Porta è virulenza e lotta corpo a corpo. Nell’uno e nell’altro caso il luogo comune che definiamo realtà, la sua proiezione comunitaria sbiadita e rassicurante è sottoposta a una scomposizione aggressiva, la cui matrice è di ordine ideologico e morale. L’epoché riguarda la percezione comune delle cose ma lascia emergere un giudizio drammatico e concitato sulla contraddittorietà del mondo, che ha comunque una motivazione individuale e sfocia in una urgenza dialogica sempre viva in Porta (la stessa scelta del nom de plume ha a che vedere con una volontà di apertura e di comunicazione), che per certi versi è molto più vicina alle posizioni di Pasolini piuttosto che a quelle di Sanguineti.

Questa è una contraddizione che Alfredo Giuliani rilevava già all’inizio degli anni Sessanta (“Porta si confessa togliendosi di mezzo […]”) e di cui lo stesso poeta vicentino si rende implicitamente conto, nel momento in cui dichiara di volersi strappare le corde vocali (“svellere le corde vocali, ingoiarle”) in nome di un impulso all’azione (“proseguire la corsa”), che rifiuta qualsiasi ruolo all’intellettuale-poeta, se non quello di “scoprire, almeno è il fine dell’arte, / l’immagine di uomo, noi” (Di fronte alla luna).

Dunque la dimensione antropologica resiste, il senso dell’essere uomo non è allontanato, ma deve riacquistare un senso che la disumanizzazione industriale e l’alienazione sociale minacciano. Porta in questo senso è più vicino, almeno nella sua prima fase, al gesto lacerante e inquieto di Francis Bacon, in cui comunque una spinta umanistico-espressionistica permane, piuttosto che all’equilibrio ecologico e anti-umanistico della Land Art, che invece via via entrerà in gioco da Invasioni in poi anche come richiamo a una dimensione del reale non più conflittuale ma olistica, mediata dalle culture tradizionali dell’Estremo Oriente, che gli forniscono anche un modello di scrittura basata sul levare invece che sull’accumulazione caotica di particolari.

Nel passaggio tra le due fasi resta incredibilmente alto il tasso di concentrazione sull’idea esistenziale del nomadismo e su alcune immagini di forte pregnanza (“finestra”, “aprire”, la sfera fisiologica, ecc.). Fino a Metropolis, però, la drammaticità del reale, che è all’origine del nomadismo come ricerca inquieta di senso, viene colta attraverso il ricorso ossessivo a antitesi, ossimori, negazioni: l'immagine della poesia-vita in fuga, orizzonte irraggiungibile dalle inflessioni campaniane (“Per la strada al passaggio impietrì / della giovane musa, ostinato / l’inseguì, poi, sicuro di non raggiungerla”, Meridiani e paralleli) indica il senso di impotenza con cui l’autore cerca di cancellare la sua identità, invano, negando l’io e aderendo alla registrazione delle percezioni di una realtà frammentaria.

A partire da Week-end, e soprattutto da Invasioni, l’inafferrabilità del reale viene assunta come una possibilità di apertura – quell’apertura inizialmente tentata attraverso la lacerazione – che si può realizzare una volta accettato il limite insito in ogni esperienza. La scissione e l’ossimoro si lasciano progressivamente affiancare e inglobare da una visione del reale non più basata sul trauma antagonistico ma piuttosto centrata sull’idea di metamorfosi, che fa della metafora (non del simbolo né dell’allegoria) lo strumento privilegiato di questo approccio sintetico al mondo. Il reale resta drammatico ma vita e morte sono ora assunte all’interno di un processo biologico dialettico-metamorfico, non più marcato dall’antitesi. L’approdo è la “felicità del limite” (Airone, 9) appunto.

Forse il prezzo da pagare a questa accettazione equanime dell’esistente sta in un respiro poetico ineguale. A leggere le poesie di Yellow – almeno per come si presentano nell’edizione postuma voluta dalla moglie del poeta – se ne ricava l’impressione di un passo discontinuo ma sempre radicalmente vero nei suoi assunti etici; in ogni caso si tratta non di brillanti esercizi linguistici ma quasi di un modo di disciplinare la ricerca su se stesso e sulla propria identità attraverso la pratica poetica. Dunque anche i versi meno riusciti della sezione Distanza amorosa – che per altro non soddisfacevano neanche Porta – sono animati da un meritorio sforzo di comprensione, da una tensione etica che è rara nella poesia degli ultimi decenni, troppo esclusivamente protesa al virtuosismo intellettuale e disinteressata a una reale presa di coscienza del mondo.

In Passeggero, un testo del 1975, Porta scrive:

Le api al lavoro si sono perse
le mani le ha morse il cane
di una casa è rimasta una trave
tra il passeggero e il bosco un campo bruciato.

Poche immagini che sanno comunicare attraverso la percezione, ancora precedente il giudizio, un senso di assoluta e quieta desolazione, di imperturbabile visione della natura fenomenologicamente colta nella sua Gestalt formativa, anteriore a ogni tentativo di riduzione a senso. Forse questo è il punto che la poesia di Porta addita come snodo cruciale alla riflessione  (po)etica di oggi.